LE VESUVIANE
di Clelia Sorrentino
Spring Edizioni - Caserta 2000
Per gentile concessione dell'autrice.
LE DONNE DEL VULCANO
Clelia Sorrentino ancora una volta ci sorprende con
un libro dedicato al Vesuvio, il vulcano che da sempre ha regolato e
sregolato la sua vita, la sua cultura, la sua scrittura, essendo nata a
Pozzuoli, la città dello zolfo e del bradisismo, da padre di Torre del
Greco, città vesuviana per eccellenza, dove attualmente vive e dirige
con il consorte, l’avvocato Salvatore Accardo, presidente della Pro
Loco, il più antico periodico della Campania, La Torre. Tocca, questa
volta, alle donne del Vulcano parlare, raccontare la vita, che qui si
celebra ogni giorno come un evento, una magia, una meraviglia, un’alchimia,
un sussulto del sangue e della mente, lungo quel Miglio d’Oro, di
borbonica memoria, che sembra ancora fare da spartiacque tra degrado e
sontuosità, tra i bassifondi poveri di sempre e le nobili ville del
Settecento.
Il corallo, certo il corallo, bisogna pescarlo nel fondo di un mare, che
si colora di bellezza e si accende d’amore, all’apparire del sole.
Chi approda, soprattutto di sera, a Torre del Greco, ha la forte
impressione di trovarsi in una città orientale, affollata e vociante,
ardente e processionale, nella vicinanza estrema della sua gente, che si
accalca nel Corso e nelle vie vicine, si sperde nei vicoli, e non può
talvolta fare a meno di esprimere un commento su chi non conosce o vede
per la prima volta apparire al suo orizzonte marino.
Intanto il Vesuvio invade, soprattutto d’estate, con le sue folate
di bosco il mare e tutto torna, fra tanti sfratti e sgarrupamenti, a
farsi primitivo, primo profumo e puzzo d’infinito. E il grido di
Goethe, che stigmatizzava il sole sull’immondizia, nei suoi viaggi nel
Sud, sembra risuonare tra la montagna e il mare. Qui si vive, ogni
volta, una giornata di sole, che enfatizza la miseria e la bruttezza
compiute sapientemente dall’uomo sulla ricchezza e bellezza naturali
che lo circondano. Qui la ginestra, di leopardiana memoria, può ancora
nascere dalla nera pietra vesuviana.
Le donne di Clelia, per caso o per calcolo, amiche, conoscenti,
sconosciute, compagne di viaggio e d’avventura, sotto lo stimolo di un
sole, di uno spillo dialettico, si accendono e si raccontano. A loro
basta vivere, a Clelia no. La donna di zolfo e di mare vuole, a tutti i
costi, scavare il mistero di un mondo che ribolle dentro le viscere e
che esplode solo sotto un impulso forte, proprio come quel Vulcano, che
le donne di qui ancora salutano come un antico signore, padrone del
cielo e della terra.
Le parole nascono, dunque, dalle viscere ed hanno la levita invadente e
la corposità incandescente di lapilli e di lave, che giungono molto
più lontano del previsto o scendono lentamente a valle, lungo percorsi
antichi che si rinnovano nel ritmo ardente di eruzioni e colate sempre
nuove. E davvero difficile trovare al mondo un luogo cosi avidamente
appiccicato al corpo del Vulcano, in un rapporto intenso ed intimo di
amore e, solo qualche volta, di paura. La forza della vita sopravanza
sempre la fragilità della morte, anche perché qui può capitare spesso
di morire da vivi.
Per le donne di Clelia, il Vesuvio e realtà e metafora, un luogo da
allontanare e avvicinare, talvolta persino da rimuovere quale immagine
statica rispetto alla mobilita del mare. Un luogo, che conosce gli
abbandoni e i ritorni, le fughe lontane e le serrate in casa, la vita
certo ma anche la morte e persino una certa voluttà della morte, quasi
nello spirito di un "Gattopardo" napoletano, nostrano e
verace, sicuramente più fisico del gemello siciliano. Si, perché qui
per la metafisica della mente non c’è tempo: tutto urge ed arde dal di
dentro, senza scampo. Sentire e sentire troppo è l’imperativo
categorico di un universo che conosce e venera solo le leggi dell’istinto,
prima ed oltre ogni ragione. Anche qui molto sta cambiando, ma il sangue
che si mescola nell’amore, nella famiglia, resta seme e storia di vita
e di morte, danza ardente e dura riflessione da fermi.
E in nome dell’amore, da intendersi come incontro magico di due corpi
e di due anime, ma anche come scelta di un luogo sentito come
consanguineo, pur nell’apparente distanza e distonia delle origini, si
celebrano imprevisti sposalizi montani e marini tra il Vesuvio e le
molte donne che lo prescelgono come amante, da possedere per sempre o da
incontrare in quei privilegiati ritagli di passione e verità che la
vita per fortuna regala. Anche a loro Clelia dedica il proprio peana di
simpatia (in senso greco) e di allegria, nella colorata felicita di un
incontro, che inventa sempre per la prima volta la vita, liberandola da
ogni sovrastruttura squallida e stantia. Vesuviane non sono allora solo
le donne che nascono dal Vulcano, ma anche quelle che scelgono ogni
giorno di calarsi nel suo cunicolo, prima o dopo di essersi accese di
sole e bagnate di mare.
Francesco D ’Episcopo
L'ONOREVOLE ADELE,
VESUVIANA D'ELEZIONE
Erano i bollenti anni ’60 e Adele Faccio poneva la
sua esperienza di parlamentare radicale al servizio delle donne non
consce dei propri diritti. Soprattutto di quelle a sud d’Italia, più
indifese, in condizioni di arretratezze vincolanti.
Quando, bambina, aveva visitato gli scavi di Ercolano,
aveva guidato i genitori per mano fra le insuIae, destreggiandosi
sicura fra templi, teatri, terme, abitazioni private. Era già stata li,
in mondi antecedenti -. La mia prima patria è Napoli - dice ancora - e
dei napoletani ha affettuosità e fiducia nell’avvenire, comunicativa
e schiette esplosioni gioiose.
La sua bruttezza meravigliosa conquista. Nelle uscite fra donne era l’unica
di cui essere gelose.
Tutti gli occhi puntati su Adele che non teme confronti. Né l’età,
né l’incedere contorto sul bastone sono un deterrente al suo svettare
tra la folla e al fascino di chi crede e vuol costruire un mondo
migliore, lanciando invettive verso i tanti che oppongono ostacoli alla
sua fede.
Persone interessanti al suo cospetto spariscono perché lei non possiede
tabù né timidezze e il suo senso di giustizia si dirige giusto al
cuore della gente.
E' di quelle di cui si dice ammirati - che carattere - e parimenti - che
caratteraccio! -. In qualsiasi consesso, dopo il primo impatto, le belle
pupattole rimangono sole. Lei è circondata. E quando le rendono omaggio,
per ognuno lei ha parole e sguardi che sentono e vedono troppo, che
forano le coscienze. Una donna grande e semplice sa riconoscere i
bisogni elementari dei suoi simili, avendoli prima sofferti sulla
propria pelle, e non si tira indietro, patisce persino la galera pur di
far si che vengano rispettati.
Ha la straordinaria facoltà di saper ascoltare e si guarda dal
propinarti l’impazienza di saperne certamente di più. Il suo
femminismo sapeva recitare i meu culpa; non fu quello bieco,
rivolto indiscriminatamente contro l’uomo. Nei confronti di questi
intratteneva rapporti dolcissimi. Fu stimata e riamata. Il suo era aiuto
a comprendere e a comprendersi, nel caso, ad imparare a difendersi da
prevaricazioni e violenze, a mettere ad esse riparo per costruire un
mondo più equo. Adorabile stracciona, l’Adele non si è mai cinta di
orpelli e belletti femminei. Non ne aveva bisogno. Non scambiava con le
compagne solo idee politiche e sociali, anche cappotti, scarpe e...pantaloni.
Divideva biblicamente tutto, perché nulla va sprecato. Perché mai
accentuarsi se ci si accetta in toto? A lei piace il suo odore asprigno.
La rassicura e la conferma nella propria identità. Odore di animale
sano il suo. La ente deodorata cancella, quasi ne avesse vergogna,
tracce di sé in nome del progresso. Ma quale?
Si guarda ai selvaggi con orrore misto a desiderio di quanto e raro e
perduto, un piacere da concedersi forse, se non ci fosse quella
maledetta fifa a far da deterrente! un sapore diverso.
E come tutte le diversità, attrae e repelle. Perché quanto è oscuro,
rimescola e fa male anche nella sua limpidezza. Terrorizza poi l’ipotesi
di abituarsi al selvaggio dopo averlo gustato e di non volere o potere
più tornare a galla nella insipida, deodorata normalità.
Le donne le devono molto, ma, si sa, dimenticare è degli umani.
L’Adele è già mito. Le rampanti disinibite di oggi neanche sanno chi è
quella nasuta, alta e sottile signora dai corti capelli innevati,
inguainata in jeans sformati. E come potrebbero?
Un pudore sempre più raro trattiene da esibizioni e presenzialismi chi,
ingrigita, pesantemente si appoggia a un bastone e non si ritrova e non
sente di avallare attuali politiche. I subitanei trilli della sua voce,
d’attrice più che di parlamentare, non più risuonano in aule ed in
convegni. D’altronde non ha bisogno di accaparrarsi un posto al sole
chi alle lotte parlamentari ora preferisce l’ombra discreta che
protegge e permette di portare alla luce ricchezze per anni sacrificate
all’interesse pubblico.
Sprazzi e guizzi di pittura, esplosioni di vita, esaltanti letture da
condividere nelle quattro chiacchiere dinanzi ad uno schietto bicchiere
di vino con rari compagni di viaggio. Fuori il can-can della Camera, gli
sproloqui, le tensioni, gli inciuci, l’aria che a tutto spiano
condiziona l’artrosi. Ora incrocia dita e parole, Adele, tu che con le
parole hai saputo spiegare la coscienza, la gioia e la dignità del
nostro essere donne.
ECHI DI SAGGEZZA POPOLARE LA VITA
SCANDITA DAI PROVERBI
DISCORSI DI CORTILE
FRA CONCETTA, NUNZIATA,
PUPETTA E FILOMENA
Beghine, monache, sante? O ammaliatrici, furbe e
demoni? Come viene presentata la donna del passato nei detti popolari e
dalle "femmene ’e ’na vota"?
Giudicate voi!
Concetta, malgrado i settant’anni suonati, dall’alto del lavatoio
comune del suo "quartino" alla Marina, brandendo con mano
sinistra il sapone di piazza di antica memoria e sventolando con la
destra i mutandoni di lana del marito, da ancora lezioni di vita su come
essere vere femmine: "Femmene a casa a faticare vale tant’oro
quanto po’ pesare.
Oggi, invece, continua sentenziando, a femmena tene chiu crapricce ca
ricce". Elenca i mali che entrano in casa quando la donna rivendica
lavori extra domestici: la famiglia allo sbando, manca il calore
affettivo, i figli perdono un’insostituibile guida, il marito
abbandonato potrebbe trovarsi l’amante e a sua volta la moglie cedere
alle tentazioni che abbondano negli ambienti di lavoro.
Ma la donna che lavora, e dunque guadagna, pretende di mettere bocca in
tutte le questioni, di prendere decisioni, di ribattere al marito.
(Anatema!) Il vero uomo, deve lui portare i pantaloni, deve fare in modo
che il suo volere sia rispettato, mai oltraggiato.
A conferma delle sue tesi, la nostra enuncia una serie di vecchi
proverbi, a suo dire, sacrosante verità: "Male a chella casa addo
’a gallina canta e ’o gallo tace", "femmene lengute vonno
essere vattute", "femmene, cane e baccalà, p’essere bone s’anna
mazzia" e via con la stessa solfa.
A questo punto, Nunziata, la più "femminista" del gruppo,
ribatte che "juogo de matremmonio nun se po’ tirare si li vuoje
nun so’ pare" (il giogo matrimoniale non si può sopportare se i
buoi non procedono alla pari). Inoltre, lei che ha sempre dato una mano
a tirare la carretta (per più di trent’anni macchinista in una
fabbrica di giacche di pelle), può ben testimoniare, senza tema di
smentita, che non è vero che una donna che lavora sia automaticamente
portata a tradire il marito (agita la mano brandendo indice e mignolo,
gesto universalmente conosciuto).
Per dare incisività al discorso, sottolinea: "quann’ ’a
femmena e seria po’ sta’ ’mmiez’a n’armata" (quando una
donna e seria può stare impunemente in mezzo a un’armata). Concetta,
dal canto suo, per niente convinta, afferma con forza: "a femmena
bona si è tentata e resta onesta nun è stata bona tentata" (se la
donna dabbene resta onesta dopo essere stata tentata, non è stata
tentata abbastanza). Vista l’inconciliabilità delle opposte
posizioni, per evitare fratture chiediamo a Pupetta la sua opinione
sulla donna.
Impietosamente l’intervistata dichiara: "a femmena primm’ ’e
se spusa, vott’ ’u granulon p’acchiappa ’u pullastron, po’
dopp’ ’e cunfiette caccia ’e difiette". Ossia, la donna prima
di sposarsi è prodiga di malizie e moine per poter catturare il
"pollastro" (cioè un marito che si lasci abbindolare), poi,
dopo i confetti, rivela difetti furbescamente mascherati.
Ancora, con tono sornione: "o primm’anno de matremmonio core a
core, ’o sicond’ cul’ a culo, o terz’ann’ cauce ’ncul’"
(e superflua la traduzione come qualsiasi commento). Intanto la nostra
attenzione viene catturata dall’elaborato ricamo a cui Filomena, senza
requie, ha continuato a dedicarsi.
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"Questo - dice, indicando con orgoglio il capo che ha fra le mani -
è un pregiato lenzuolo di primo letto che non tutte possono sognare di
avere nel proprio corredo".
Ammirate per il certosino lavoro osserviamo che la ragazza, cui sarà
donato quel pezzo, è senz’altro fortunata. "Non lo regalerò a
nessuna - rimbecca risentita - farà parte della mia dote
personale". "A’ cumpagna nostr’ ten’ quasi sittant’ann’
e ancor’nun s’arrenn’, nun vo’ capì che è passata ’e coveta!",
esclama ironica l’a mica Concetta.
"Gallina vecchia fa buono vruodo", sottolinea indispettita
Filomena. Poi estraniandosi dal contesto e tornando all’alacre lavoro,
recita a mo’ di preghiera l’antico detto: "San Pascale Baylonne,
protettore delle donne, mannamillo nu marito bello, tuosto e sapurito".
Auguriamo di cuore alla candida ospite, meglio tardi che mai, di
realizzare il suo desiderio, ma, considerata l’età che dovrebbe avere
l’eventuale promesso sposo, siamo un tantinello scettiche che possa
ancora possedere i requisiti richiesti. In bocca al lupo! Meglio evitare
la frase augurale, nel caso specifico anacronistica, "Auguri e
figli maschi".
SOPRAVVIVERE ALL'USURA VENDITRICI DI SFIZI: TRIPPA
E SIGARETTE
LA VEDOVA BORRELLI
E L’AMICA DONOMELLI
Porta Capuana. Quartiere Vicaria, a quattro passi dal
famigerato "La Duchesca ", due banchetti in funzione sino alle
ore piccole. SuI più vistoso, spicchi di limone, trippa e "piede
e muso di porco", irrinunciabili cannarizie vesuviane.
Impacchettati su una panca più piccola, fazzoletti di carta e sigarette.
E qui che le amiche Maria e Nunzia tengono al calduccio le gambe,
intirizzite daIl’umidità della notte, alle carbonelle accese in latta
aperta.
Maria Borrelli, trippaiola e contrabbandiera.
So’ dodici anni che stongo cca’. Dalle 5 di sera
sino alle 2-3 di notte, Maria ’a trippaiuola si guadagna la vita un po’
da un banco un po’ dall’altro. Prima facevo la moglie e la
casalinga. Che aimma fà, aimma ’i a ruba’? Nui simm’ femmene.
(Concia, tagliuzza e mescola piede e muso di porco alla trippa, poi ce
li porge in una busta di plastica allargata).
S’adda paga ’u piggione, aimma magna’ e ce stanno diebbete a
volontà.
Mi riferisco all’usura. Pigliammo ciento e n’aimma scosere duciento.
Sono madre di otto figli, uno chiù ciesso ’e n’ato. Vanno annanza e
arret’. Incasano sul’i vasole. Pensano sul’ ’e cazze lloro.
I genitori contano e valgono per quel che valgono. Una lotta!
Nunzia Donomelli, casalinga amica.
Se songo vesuviana? Tengo nu’ fuoco int’ e’ vene che arde troppo
assai.
Sono un’amica. Tutti i giorni faccio un salto per tenere compagnia
alla signora Maria che vende trippa e ’o pere e ’o musso ’e puorco,
qui a Porta Capuana. Mettere ’o culo ’a Vicaria, significa metter
’o culo a ’u viento. Tengo due figli, ’e 17 e 19 anni. Che fanno?
I mariuoli!
AI BAMBINI NON SOLO PANE MA TANTO AMORE E FANTASIA
IL CODICE DELL’ANIMA
DI MARGHERITA
DINI CIACCI
vice Presidente Nazionale dell’UNICEF
Nata a Como, genitori marchigiano e lucana. Vive a
Napoli con marito torrese funzionario aIla Procura della Repubblica e
figlie. Laureata in legge, ha studiato Psicologia per minorenni ed ha
prestato servizio sociale agli Ospedali "Monaldi" di Napoli,
"Bottazzi" di Torre del Greco per conto delI’INPS.
Pur assillata dal tempo, non se ne lascia
condizionare, né trascura gli altri suoi ruoli. Siamo nella sede
UNICEF del Vomero - Napoli.
Entra uno, entra un altro, a chi ricorda qualcosa da segnare, a chi di
inviare spille, calendari, agende UNICEF, e poi, il IV corso
universitario di Educazione allo Sviluppo per la convivenza delle
culture nella realtà italiana. E, a proposito, guai a mancare il 18
gennaio ’99. Il professor Aldo Masullo discute di Razzismo e
Intercultura. Ancora: il corso di aggiornamento per gli insegnanti, i
diritti al maschile e al femminile, la rivista nuova sulle donne e sui
ragazzi di strada...
- Nunzia Pesce: Abbiamo un ragazzo che il
giudice non sa neppure lui dove e come piazzare, come spostarlo. Ha
subito violenza da quando aveva 8 anni, ora ne ha 12. Non c’è
alcun tipo di violenza che non abbia veduto o subito e ora deve
vedersi dichiarato non adottabile. Per lui ci vorrebbe una coppia
capace e che abbia ottenuta l’idoneità dal Tribunale.
- - Margherita: Il più delle volte quelli
che aspirano ad adottare negli Istituti fanno gli eroi, invece il
ragazzo se lo tengono un giorno e lo riportano. lo sono devota della
Madonna di Pompei. Il mio caro padre si chiamava Rosario, le figlie
pure. Dinanzi a milioni di bambini che muoiono ogni giorno per fame
e malattia, dobbiamo chiederci cosa significhi essere uomini etici
in una comunità mondiale. Secondo Kant vuol dire "vivere la
propria liberta in comunione con la liberta". Noi che
comprendiamo, dobbiamo risvegliare le coscienze per dar spazio ai
piccoli della terra. I bambini non vanno usati come scudo ed esca
per ottenere i propri scopi gettandoli a mare, come fanno i
trasportatori di disperazione umana, oppure dando il cibo a loro
destinato, ad altri, come fa Saddam Hussein. E la mentalità che va
cambiata. L’Italia ha fatto un’ottima legge, ma non vi sono
politiche per i bambini, se non palliativi, retoriche. Invece
riattiamo il Paese, pensiamo a strade praticabili, a città amiche
di bambini e bambine, a spazi, a piste ciclabili, a dare ai ragazzi
partecipazione ai lavori. - Ero in un negozio ed entra un povero.
Nella sua mano tesa metto mille lire. Lui, quasi deridendomi "e
con queste che ci faccio?". Subito me le riprendo. - Invece,
so bene cosa farci, io - replico secca. E che la gente non crede
più nell’onesta.
Diceva Martin Luther King: "Non mi interesso al
male dei cattivi. Temo il silenzio dei buoni".
Se si viene trattati male, bisogna reagire, non accettare.
Un camorrista voleva scendere a patti con me per le coperte raccolte per
l’Etiopia. Mi mostro quattro camion pronti. - Avverta i camionisti che
non ho paura, che posseggo i numeri dei camion! - dissi spavalda. Andai
di corsa a chiedere protezione temendo ritorsioni, che non incendiassero
le coperte, anche per questione di disdoro per la città. Ai portuali
consegnai il prezioso carico raccomandando di non farlo rubare. Al
termine del trasporto non vollero essere pagati, fatto unico, credo,
nella storia dei portuali di Napoli.
- Margherita ha ricevuto la medaglia di solidarietà
per la pace e l’unica targa UNICEF-Italia al teatro Regio di Torino,
oltre a un centinaio di medaglie internazionali. Per lei, un impegno a
dare e fare sempre di più, nell’interesse dei bambini e dell’UNICEF.
- Mentre parla, la Ciacci da disposizioni per il
Natale dei rom di Secondigliano, e caldeggia - che sia un Natale non
di abbuffate ma di valori. -- - Spesso i donatori non si fidano,
vogliono lasciare a me il danaro. Una volta insistevano per
lasciarmi un milione per i bambini di Secondigliano. Ed io a
difendermi: - Non posso accettare. Dovete portarli al Parroco che li
segue -.
- - I regali che non posso inviare, li distribuisco fra i poveri
nostrani. Di qui spaghettate ai "Quartieri", scarpe ai
"Villaggi del Fanciullo". Vanno inviati pacchi solo a
gestioni più che sicure. Per Natale arrivano regali in dolci e
Nutella, una vera manna per le colazioni dei bambini.
- - L’infanzia è il patrimonio dell’umanità. Secondo Plutarco
"i bambini non sono sacchi da riempire ma lampade da
accendere". Li abbiamo spenti noi, i bambini. Non ridono, non
giuocano più. Hanno visto e sentito troppo. La famiglia è assente.
Se non diamo loro dialogo, non diamo loro rispetto. Spesso non
rubano per fame, ma per noia. Non serve ribadire ai figli "io
lavoro, io sfacchino per te", e non parlare, non avere tempo.
Ai bambini bisogna dare il pane, si, ma soprattutto amore e
fantasia.
Perché amore e fantasia abbondano in queste terre
vulcaniche, terre calde, che di sicuro condizionano i sentimenti anche
in maniera estrema, nel bene e nel male. Il vesuviano vive nel massimo
coinvolgimento: ama e odia a seconda delle circostanze del momento. Così
si mobilita un quartiere contro la polizia che va a "scippare"
il bambino alla madre naturale e si aggrediscono le stesse forze di
polizia, magari per liberare un piccolo scippatore. E' la stessa Città
che non sostenne i nobili napoletani nel 1799, sostenendone invece il
pubblico ludibrio fino alla morte.
Lombarda per razionalità, ribolle come una vesuviana contro chi abusa
dei ragazzi violandoli, usandoli come oggetti. Per questi
"cittadini del male" creerei un sistema di consapevolezza,
ponendoli al servizio dei bambini che muoiono nei paesi della fame,
della sete, delle malattie e delle guerre.
L’influenza del clima e dell’ambiente sulle persone è considerevole.
I popoli nordici vengono considerati freddi solo perché vivono in modo
meno passionale e stimolante le emozioni.
A Napoli l’inquinamento acustico e da stress. Il bambino, più
vulnerabile dell’adulto, e sollecitato dagli stimoli ambientali con
difficoltà di vivere in città che dovrebbero essere a sua misura. Ciò
vale per il bambino "sano" (ma esistono bambini sani?) e ancor più per
quello ammalato. Questi finisce per subire la malattia come ingiusta
punizione ed esclusione dal contesto familiare, scolastico o sociale. Il miglior ospedale non
è quasi mai dissimile dalla peggiore
fogna. Consiglierei a quanti attendono alla politica della salute di
"formarsi" ricoverandosi perlomeno 15 giorni in una
struttura pubblica.
Infine trovo offensivo il paragonare Napoli, città ricca di
potenzialità e di intelligenze, a un paese del terzo mondo.
Fra l’altro non mancano fondi da destinare a politiche sociali in
favore delle fasce deboli (bambini, anziani, handicappati) in
particolare di bambini, adolescenti e famiglie. Tutto sta che le
istituzioni indirizzino bene questi fondi.
E ora vi saluto. Sono per l’Italia e per la sua unita contro ogni
pazzo analfabeta secessionista che vuole dividere ciò che è stato unito
con il sangue degli Italiani.
Fine quarto racconto
Il libro completo è composto di trentuno racconti
Rivolgersi all’autrice.
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