La visita di Pio IX
in S. Croce a Torre
E' noto che il papa Pio IX, già in fama di liberale e coinvolto, al di
la delle sue vere intenzioni, nel movimento risorgimentale, dopo aver
alimentato le fervide speranze dei patrioti italiani inviando nel 1848
sue truppe alla I Guerra d’Indipendenza in aiuto del re Carlo Alberto,
con un improvviso voltafaccia sconfesso il suo impegno politico,
contribuendo alla sconfitta piemontese di Custoza; considerato dai
liberali delusi un traditore della causa nazionale, dovette affrontare
in Roma una situazione esplosiva fino ad essere costretto a fuggire con
la sua corte, il 23 novembre di quello stesso anno 1848, a Gaeta nel
territorio del Regno delle Due Sicilie, sotto la protezione dell’assolutista
re Ferdinando II, dando modo che nella sua città si costituisce un
governo repubblicano guidato da Mazzini. Quando poi, nel luglio del
seguente anno 1849, Roma venne liberata dalle armi del francese Luigi
Xapoleone egli, diventato ormai un retrivo anticostituzionale, si
rifiutò di accettare un progetto di riforme governative propostogli
dalla Francia e preferì prolungare il suo esilio.
II 4 settembre, accompagnato dall’ossequioso re Ferdinando, da
cortigiani, nobili e alti prelati, s’imbarcò a Gaeta sulla real
fregata ”Tancredi” e nello stesso giorno giunse al Granatello di
Portici, salutato da numerosa folla e da schiere di soldati in grande
uniforme, per prendere dimora, nell’attesa di giorni migliori, nella
locale Reggia borbonica messa a sua disposizione.
A Portici egli trascorse serenamente le sue giornate e volle uscire per
vedere chiese, conventi, ospedali, ospizi e luoghi celebri di Napoli e
della Campania, sempre accolto favorevolmente, senza essere fatto
oggetto di ostili manifestazioni da parte delle popolazioni, rispettose
della sua persona e timorose della severa giustizia borbonica.
Le sue visite furono molto frequenti e seguite e annotate da Stanislao D’Aloe,
segretario della Direzione del R. Museo Borbonico e della
Sopraintendenza Generale degli Scavi di Antichità del Regno, il quale
pubblicò poi il tutto in un volume dal titolo ”Diario della venuta e
del soggiorno di Pio IX in Napoli” (Tip. Virgilio, Napoli 1850),
attualmente consultabile alla Biblioteca Nazionale.
L’illustre ospite uscì, dunque, la prima volta il 6 settembre, con
una carrozza tirata da sei cavalli neri scortata da guardie a cavallo e
seguita da altre due in cui erano nobili e prelati, e, attraversando tra
la folla la strada regia tra Portici e S. Giovanni a Teduccio, si recò
a Napoli per celebrare la messa nel Duomo. Tre giorni dopo, il 9, sempre
in corteo, torno nella capitale e si recò a Palazzo Reale ove benedisse
la folla e l’esercito dalla loggia centrale e pranzo con la famiglia
reale. Il 12 settembre ricevette a Portici il corpo municipale di Torre
del Greco e lo ammise al bacio del sacro piede, accogliendo l’invito
per una visita alla parrocchiale di S. Croce. E subito dopo, venerdì
14, ricorrendo la festività dell’Esaltazione della S. Croce, venne
infatti a Torre.
Attraversando sempre tra la folla, con tre carrozze e scorta di soldati
a cavallo, la strada regia di Portici e Resina, egli entro nella nostra
città per la via Capo La Torre (attuale via Diego Colamarino) salutato
dalla popolazione tutta che era in strada e ai balconi e alle finestre
addobbati, secondo l’uso locale, con copertini di seta, mentre le
campane della Madonna delle Grazie, di S. Michele, di S. Croce, dell’Assunta
suonavano a gran festa. Racconta il D’Alue nel suo citato libro: ”Alle
ore 5 dopo il mezzogiorno Sua Beatitudine uscì dal palagio nel consueto
corteo per recarsi alla prossima città di Torre del Greco. Il popolo di
questa città, il quale aveva gia saputo della venuta del S. Padre, fece
trovar netta ed annaffiata tutta la strada che dovean percorrere le
carrozze del Papa, al cui passaggio si videro parate con drappi di vari
colori tutte le finestre delle case che metton su la via".
Moltissima gente, al suono festoso delle campane, corse all’incontro
del S. Padre, e molti portavano inalberate le reali bandiere, tolte alle
navi del vicino porto, e gridavano ad altissima voce: ”Viva Sua
Santita ed il nostro amato Sovrano!”.
Il Papa discese di carrozza alla scalinata della parrocchiale dove
fu ricevuto sotto il baldacchino dal parroco (mons. Felice Romano,
nipote del Beato Vincenzo, n.d.r.), dal capitolo e da tutto il clero.
Sua Santità si pose in orazione davanti al SS. Sacramento esposto sull’altare
maggiore e benedisse il popolo calcato nella chiesa; e seduto sul trono,
ammise al bacio del sacro piede il parroco e il clero. Poi ritornò
Portici.
A ricordo di tale avvenimento ”unico nei fasti torresi”, una lapide
marmorea sulla facciata interna della stessa chiesa porta scritto che
”nella festa dell’Esaltazione della Croce del 1849 quel papa ivi
entro benedicente, acclamato da tutto il popolo che ne ricambiava le
benedizioni con auguri di prosperità e di pace”.
Pio IX fu poi (segnaliamo, fra le tante, le visite più interessanti) il
giorno seguente al santuario di Piedigrotta, i116 ancora al Palazzo
Reale di Napoli benedicendo la folla dalla loggia centrale (qui, pero,
vi furono proteste di liberali per le strade contro quella ”benedizione
ipocrita volta a plaudire il re infame e spergiuro” e un tentativo
dinamitardo in piazza nei riguardi della folla); il 20 fu al Duomo di Napoli
per il miracolo di S. Gennaro, il 27 all’ospedale degli Incurabili e
al monastero di S. Patrizia, il 1’ ottobre ai monasteri di S. Gregorio
Armeno e di Donnaregina in Napoli, il 4 al convento di S. Antonio in
Portici e al Palazzo della Favorita in Resina, il 5 al Real Museo
Borbonico (oggi Museo Nazionale), l’8 alla chiesa di S. Michele in
Pagani per rendere omaggio alle spoglie di S. Alfonso e al Duomo di
Salerno, il 10, in corteo a piedi, alla chiesa di S. Ciro in Portici, il
15 alla Reggia di Caserta, ricevuto dal re, il 17 all’Ospedale dei
Pellegrini e all’Archivio di Stato in Napoli, il 22 agli Scavi di
Pompei, a Sorrento, a Meta e a Castellammare, il 25 agli Scavi di
Ercolano, dal 30 ottobre al 2 novembre a Benevento, suo possedimento, il
10 a Napoli nella chiesa di S. Paolo Maggiore presso la tomba di S.
Gaetano e alla R. Casa dell’Annunziata, il 21 novembre alla chiesa di
San Vincenzo alla Sanità, l’8 dicembre, per la festa dell’Immacolata,
nella basilica di S. Francesco di Paola, il 18 al santuario della
Madonna di Pugliano in Resina e di qui torno a Torre per visitare il
monastero dei Camaldoli, ma quando giunse alla via che dalla regia sale
al luogo anzidetto, il sole era gia al tramonto, per cui vi rinunzio e
tornò indietro a Portici. Il 24 dicembre si reco ancora al Palazzo
Reale di Caserta, ospite per il Natale della famiglia reale e celebrò
la messa di mezzanotte. Al mattino di Natale celebrò ancora la messa e
impartì la comunione ai reali e pranzo con essi. Il 27, giorno del suo
onomastico, volle ricevere i reali e la corte a Portici e li trattenne a
pranzo; il 3 febbraio 1850 fu con i reali nel Duomo di Napoli per I’incoronazione
dell’immagine dell’Addolorata e poi alla chiesa di S. Pietro ad Aram,
il 28 marzo, giovedì santo, fu di nuovo a Caserta, con la famiglia
reale, per le particolari funzioni di quella giornata, e il 31, per la
Pasqua, trattenne a pranzo, a Portici, il re e la regina.
Intanto le pretese francesi erano scemate e la situazione in Roma si era
completamente normalizzata. Il papa decideva così di ritornare alla sua
sede. Il 4 aprile lasciava Portici, sostava alla Reggia di Caserta e il
giorno seguente, accompagnato dal re, partiva in carrozza per la via
Appia; il giorno 6, all’Epitaffio, dopo Fondi, ove era il confine tra
il Regno delle Due Sicilie e il suo Stato, si congedava dal re che,
commosso e piangente, lo abbracciava e lo baciava. Il 12 aprile
rientrava, infine a Roma.
Ciro Di Cristo (La Torre 21 dicembre 1981).
La peste del 1656.
A Torre 1500 morti.
Tela di Mico Spadaro (Museo Naz. S.
Martino)
Napoli caduta nel 1503 con tutta l’Italia meridionale sotto il dominio
della Spagna, mal governata da viceré e da funzionari spagnoli boriosi
e inetti, intenti solo ad imporre imposte e tributi per arricchirsi,
attraversava un periodo di grave crisi sociale ed economica. La
corruzione imperava ovunque, la carestia era cronica e il costo della
vita aumentava continuamente.
La popolazione entro la cerchia cittadina era immensamente accresciuta e
raggiungeva le 350 mila unita. Molti abitavano stipati in ”bassi”
luridi e fatiscenti, fra stretti vicoli privi di aria e di luce e, tormentati
dalla fame e dalla mancanza di lavoro, covavano odio profondo contro gli
speculatori e i nobili privilegiati e spesso si davano all’accattonaggio,
al furto o sfogavano in violenti tumulti di piazza.
A peggiorare le già precarie condizioni generali si aggiunse nel 1656
una gravissima epidemia che si diffuse rapidamente tra le classi
popolari. Dal gennaio si ebbero in città alcuni decessi repentini;
durante la quaresima si comincio ad avere qualche sospetto di peste
perché tale la rivelarono certi sintomi quali dolori di testa e deliri,
febbre con sete inesauribile, bubboni all’inguine o sotto le ascelle,
pustole alle gambe.
I luoghi ove inizio il morbo furono il Lavinaio, il Mercato, il
Calcinaio, la Conceria, formicai di plebe che viveva in condizioni
igieniche deplorevoli. In breve si sparse un allarme per la città, ma i
medici, che erano abituati ad adulare i governanti e i nobili e a non
farsi nemici, anche se sapevano, nascosero la verita. Il coraggioso
medico Giuseppe Bozzuto dichiarò trattarsi di peste, ma fu
imprigionato. I casi di morte aumentarono e tutti, sbigottiti,
affollarono le strade per discutere.
Una commissione di medici, riunitasi il 12 maggio, concluse non
trattarsi di peste e, giudicando che il male derivasse dal baccalà e
dalle saraghe mangiati in gran quantità in quel periodo di penitenza
quaresimale, ordinò che tali prodotti fossero distrutti, che si
mandassero inoltre i maiali a pascolare fuori città, che si togliessero
le immondizie dalle strade e si accendessero grandi fuochi per
purificare l’aria.Ma non per questo il male cessò, anzi si sviluppò
con maggiore violenza.
Accertato finalmente dalle Autorità che si trattava di peste, si
prescrissero altre misure sanitarie, quali la chiusura delle case dei
malati, la distruzione col fuoco delle suppellettili e degli abiti
infetti, il divieto di seppellire nelle chiese; si nominò una ”deputazione
della salute” che decise una specie di mobilitazione generale e
incarico medici, chirurghi e barbieri (che avevano qualche cognizione di
medicina poiché praticavano i salassi) di curare gli infermi.
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Si istituì un lazzaretto a S. Gennaro fuori le mura
dove quotidianamente vennero portati molti malati. Ma poiché mancava lo
spazio, si consentì che ci si potesse curare anche per proprio conto in
casa, con la conseguenza che molti malati, credendosi immuni, vennero a
contatto con i sani. Né mancarono episodi di fanatismo come le
processioni religiose che videro mescolate insieme persone di ogni
genere, contribuendo a diffondere il contagio, o come la caccia agli
untori e ai forestieri che, sospettati di spargere polveri velenose,
vennero furiosamente catturati e linciati o messi alla ruota o squartati
o arsi vivi. Il contagio, ormai diffusosi troppo, non poté più essere
fronteggiato e raggiunse la fase più acuta a giugno-luglio.
I morti furono migliaia al giorno ed erano gettati a mucchi nelle
strade, poi caricati da becchini su carretti per essere bruciati o
buttati in mare o sepolti lungo il litorale e in grandi fosse comuni
scavate fuori le mura della città e nell’enorme voragine di una
grotta detta degli Sportiglioni, presso Poggio Reale. La città,
desolata, dissanguata, priva di tutto, era ridotta a un cimitero. L’epidemia
si diffuse con violenza in quasi tutto il viceregno e solo l’8
dicembre fu dichiarata ufficialmente scomparsa. Lo scrittore Michele
Florio in un suo libro sull’argomento, pubblicato nel 1661, cita un
gran numero di paesi dell’Italia meridionale che più furono colpiti e
fra questi Resina, Torre del Greco, Torre Annunziata, Castellammare di
Stabia, Nola, Somma Vesuviana, Nocera, Cava, Salerno. Anche lo storico
torrese Francesco Balzano ne ”L’antica Ercolano” ci informa che a
Torre, per tale lacrimevole eccidio, morirono 1500 cittadini che vennero
per la maggior parte sepolti in una profonda fossa comune scavata alle
spalle della chiesa del Carmine, fuori del centro cittadino. Secondo i
calcoli più probabili la peste del ’56 uccise nella capitale circa
250 mila persone sulle 350 mila precedenti; nel viceregno, ove si
contavano 14 milioni di abitanti, ne rimasero appena 4 milioni e mezzo.
La diminuzione della popolazione e la sospensione delle attività
produttive ebbero gravi coseguenze per la già compromessa economia.
Scarseggiarono le merci, aumentarono ancor più i prezzi, molti
commercianti profittarono per arricchirsi, altri disonesti rapinarono
case e botteghe rimaste abbandonate, turbe di mendicanti inondarono le
strade. Fu, dunque, tale evento, secondo il giudizio di numerosi
autorevoli studiosi, uno dei più disastrosi della storia di Napoli e
del Mezzogiorno.
Ciro Di Cristo (”La Torre” - 27 maggio 1981)
17 novembre 1963:
la Beatificazione
di Don Vinc. Romano.
Eravamo in settemila circa, noi torresi con i napoletani, in quell’umida
e grigia mattina del 17 novembre 1963, bagnata anche da alcune gocce di
pioggia, ad attraversare frettolosi, in tanti gruppi, intorno alle ore
9, Piazza S. Pietro, imboccare l’ingresso sotto la Torre dell’Orologio,
esibire alla guardia pontificia il biglietto riservato ed entrare. Io ed
i miei fratelli Aldo e Vittorio incontriamo subito dei volti noti: ”Buongiorno,
zia Nunziata!”, ”Buongiorno, sig. Raimondo Vitiello!”, - ”Buongiorno!”
- ”Buongiorno”.
Pochi momenti insieme; poi, nel cortile della sagrestia, ci dividiamo
per recarci ognuno alla porta segnata sul biglietto. Porta Braschi,
Porta S. Maria, Porta Rezzonico... Si va dentro, sempre svelti,
soprattutto in silenzio. Alla fine ci si trova tutti in Basilica, in un
recinto di rappresentanza o su una tribuna. Folla. Chi e indietro non
può più andare avanti per sistemarsi meglio. lo sto in un recinto del
braccio sinistro della crociera, indietro. Non vedo nulla della ”Gloria
del Bernini”, non vedrò nulla di tutto quel che si farà.
Non mi va di rimanere là. Decido di tentare una via migliore e mi tiro
appresso i miei. Ci intrufoliamo allora in tre in un gruppo di
pellegrini accompagnato da don Antonio Mangone che sta entrando in una
zona più avanzata, e ci troviamo poi sul presbiterio, in una tribuna di
prima fila. La ”Gloria” adesso e ad un palmo da noi. Sediamo. Si
riempiono man mano i posti davanti a noi, dietro di noi. Guardo intorno:
vedo Mons. Capano, Mons. Perna, don Vincenzino Scarfogliero, gli on.
Crescenzo Mazza e Paolo Barbi, il dott. Coscia, il dott. Porpora, il
dott. Balbi, il sindaco avv. Magliulo con la Giunta al completo, i
consiglieri comunali Castaldo, Frezzolino, Perriccioli e Torrese, don
Andrea Buovolo, Cianni Baldini, il prof. Pio Mazza, l’amico Michele
Romano con i familiari, larghe rappresentanze del clero della Diocesi di
Napoli con i Capitoli e i parroci, i seminaristi del Seminario di Napoli
col direttore Mons. Scanzillo e quelli di Pozzuoli...
Sul lato sinistro dell’Altare della Cattedra una rappresentanza di
guardie civiche torresi in grande uniforrne, con a capo il dott. De
Gaetano, il gonfalone di Torre del Greco e quello della Provincia di
Napoli. Lontano una marea di folla si muove, avanza, si stringe sempre
più. Ma il silenzio e perfetto: dappertutto non s’ode una voce. Sono
le dieci e dieci. Appare sul presbiterio il Capitolo Vaticano col Card.
Paolo Marella, che prende posto a sinistra dell’Altare; seguono poi i
Cardinali componenti la S. Congregazione dei Riti con a capo il Card.
Arcadio M. Larraona, Prefetto; ed inoltre Arcivescovi e Vescovi fra i
quali il Card. Castaldo e Mons. Sorrentino.
Il Postulatore della Causa Mons. Garofalo, accompagnato da Mons. Enrico
Dante, Segretario della S. Congregazione dei Riti, si avvicina al Card.
Larraona rimettendogli la Lettera Apostolica in forma di ”Breve” e
rivolgendogli preghiera di ordinarne la promulgazione. Il Prefetto
rimanda il Segretario al Card. Marella per chiedere la ”venia” di
fare ciò. Ottenutala, Mons. Emilio Rufini, canonico vaticano, da un
podio legge quel Documento per cui il Papa ”consente che il Ven.
Vincenzo Romano sia per la posterità chiamato con l’appellativo di
Beato e riceva gli onori del culto”.
Termina la lettura e tutti sorgono in piedi. Sono le 10.34. E il momento
più solenne di tutta la cerimonia, di tutta la solenne giornata. Il
Card. Marella intona il ”Te Deum”, squillano le trombe d’argento e
dall’alto della ”Gloria” cade il velo: appare cosi nella raggiera
l’immagine del novello Beato, mentre in un lampo, tutt’insieme, la
raggiera, il presbiterio, le navate, le volte tutte del Tempio s’accendono
di miriadi di luci. Centoventotto sono i lampadari, grandi, del solo
presbiterio. Un fervido applauso misto a un grido di gioia vola sotto
gli archi immensi: i Torresi salutano cosi, col più fremente
entusiasmo, la Beatificazione del loro Concittadino.
Un grande coro di popolo, accompagnandosi a quello della Cappella
Giulia, canta, migliaia di occhi si volgono in alto a guardare quello
splendo- re di sole; i più vecchi si tergono col fazzoletto una lacrima
di commozione. Tutti sanno di vivere momenti memorabili della loro vita
di cristiani, della storia di Torre del Greco.
Dopo il canto, il celebrante fa l’invocazione al novello Beato e ne
canta lo ”Oremus” incensando poi l’immagine e la Reliquia posta
sull’Altare. Quindi, assunti i paramenti per la Messa, celebra il
solenne Pontificale, assistito da canonici vaticani, mentre il coro
della Cappella Giulia esegue la ”Messa Secunda Pontificalis” del
Perosi. Manca qualche minuto al rnezzogiorno quando termina il rito e
noi usciamo. S’apre in quel mentre la finestra dello studio privato
del Papa. Paolo VI appare. Tutti di corsa. Il centro della piazza si
affolla in un batter d’occhio.
Quindicimila persone! ”Figli carissimi - dice il Papa - voi uscite
adesso dalla Basilica dove e stato proclamato Beato un sacerdote
parroco, don Vincenzo Romano di Torre del Greco. Preghiamo perciò per
la santificazione di tutti i sacerdoti”. Un grande applauso; poi,
seguendo lui, si recita l’”Ave Maria”. Si riceve la Benedizione.
Al sole tiepido e splendente noi tutti sostiamo, per circa mezz’ora,
scattando foto e scambiandoci i saluti. ”Ci sono anch’io” sembra
dire con gli occhi ognuno. Ed ecco il prof. Ferrer, il dott. De Gaetano
con la signora e la figlia, il dott. Aronne, il prof. Coscia con la
madre, il prof. Jannelli, il sig. Filippo Pagano, il dott. Noto con la
signora, il sig. Tammaro Reccia, don Filippo Eredità, Pasquale Manzo
con la famiglia, il dott. Longobardi con la signora, la prof.ssa Ascione,
Nino Morra, il rag. Alfano, la prof.ssa Magda D’Amato con la vecchia
madre, Mario De Dilectis, il rag. Intoccia, mio cugino Peppino Guida,
Aniello e Pierino Vitiello con le sorelle... Un pranzo in fretta, chi
qua, chi là.
Alle ore 16 di nuovo tutti in Basilica. Di nuovo folla enorme. Sulle
tribune riservate del Presbiterio si vedono appena gli Alti Prelati
della Segreteria di Stato, i parenti del Papa, il Corpo Diplomatico, la
Prelatura Romana, i Dignitari della Corte Pontificia, le Alte Cariche
della Città del Vaticano, le Delegazioni del Sovrano Militare Ordine di
Malta e dell’Ordine del S. Sepolcro, del Patriziato e della Nobiltà
Romana, della Pontificia Accademia delle Scienze, dell’Azione
Cattolica, delle ACLI e di nuovo tutte le Autorità civili e religiose
di Napoli e di Torre. Squillano solennemente le trombe d’argento.
Preceduto dai lanzi e da un corteo di circa duecento Padri Conciliari,
il Papa, sulla sedia gestatoria, appare nella navata centrale.
E, solcando un mare agitato di migliaia di mani e di fazzoletti, avanza
poi, rispondendo con larghi gesti di mano. Disceso dinanzi all’Altare
della Cattedra, s’inginocchia; poi col turibolo, incensa 1’Ostia
mentre i cantori della Cappella Giulia eseguono brani sacri. Dopo il ”Tantum
ergo”, Mons. Salvatore Sorrentino, Vescovo Titolare di Gerasa ed
Ausiliare di Pozzuoli, nostro illustre concittadino, impartisce la
solenne Benedizione Eucaristica. Il Postulatore Mons. Garofalo,
accompagnato dal vice Postulatore Mons. Perna, dal Card. Castaldo, da
Mons. Sorrentino, dall’On. Mazza, dal Sindaco avv. Magliu, si avvicina
al Papa offrendogli il Reliquiario contenente una reliquia del Beato,
opera finissirna di Giovanni Ascione in filigrana di argento dorato,
tartaruga, corallo e cammei. Immagini e la ”Vita” del Beato scritta
da Mons. Garofalo vengono distribuite alle Autorità presenti.
Il Papa si reca poi all’Altare della Confessione e siede sotto il
Baldacchino del Bernini. Il Card. Castaldo, come capo del- la Diocesi di
Napoli, con voce rotta continuamente dalla commozione, gli rivolge un
indirizzo di omaggio e di ringraziamento. E dopo di lui, il Papa tesse
del novello Beato un mirabile Elogio, vivamente applaudito. Poi
impartisce alla folla la solenne Benedizione.
La giornata tanto attesa per anni, tanto religiosamente e fervorosamente
vissuta da tanti cattolici torresi termina così. Col cuore ormai troppo
ricolmo di gioia e che più nulla desidera, usciamo tutti insieme. Uno
sguardo ancora alla solenne facciata, un altro ancora a Castel S.
Angelo, al Tevere, poi... addio! E di lontano, mentre corriamo verso
Torre, soltanto la grande cupola di Michelangelo si staglia nell’ombra
pacata della sera, tiene attaccati a sé i nostri occhi che vogliono
ancora, ancora per poco, godere la visione sublime di quella giornata
radiosa.
Ciro Di Cristo (”La Torre”, 5 dicembre 1963)
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