I secoli del terrore
musulmano a Torre
I barbareschi all’attacco
nel Mediterraneo.
Agli inizi del secolo XVI, dopo la cacciata completa degli Arabi dalla
Spagna da parte dei re cattolici, migliaia di mori profughi si
rifugiarono sulle coste dell’Africa settentrionale fra il Marocco e la
Libia, in tutto quell’esteso territorio detto dai musulmani Magreb e
dagli europei Barberia, aggiungendosi alle popolazioni berbere gia
dedite alla pirateria, e aizzandole contro i popoli cristiani; vi si
affiancarono turchi e sudditi turchi che popolavano le terre e le isole
egee cadute sotto il dominio dell’impero turco di Costantinopoli, ed
inoltre molti cristiani rinnegati, banditi e avventurieri che cercavano
fortuna con le rapine.
Gli istinti predatori dei berberi trovarono cosi nuovo rigore e la
pirateria continuò a seminare il terrore nel Mediterraneo, con assalti
a coste e riviere per saccheggiare interi paesi e soprattutto per
catturare uomini, donne e ragazzi, sia per venderli come schiavi sui
mercati che per guadagnare sui riscatti. Barbareschi furono detti questi
pirati continuatori delle gesta dei saraceni, dal nome, allora in voga,
del paese, la Barberia, donde principalmente provenivano, ma erano
volgarmente chiamati con voce generica anche turchi, pur non essendolo
tutti. Sorta per vendetta politica, la pirateria barbaresca, con basi ad
Algeri, Tunisi e Tripoli, si accantò in un primo tempo contro le coste
spagnole.
La Spagna si apprestò alla conquista dell’Africa settentrionale e nel
1509 - 11, con una grossa spedizione navale occupò Orano, Algeri, Bona,
altre località della costa algerina e marocchina e Tripoli. Tale azione
determino una reazione musulmana e dall’Egeo accorsero altri pirati: l’audace
Arug, col fratello Kair ed Din si pose al servizio dell’emiro di
Tunisi ed ebbe da questi la ”patente di corsa”, cioè il documento
che lo autorizzava a correre il mare in armi contro i nemici del paese,
i non musulmani, a suo rischio e guadagno. Egli si trasferì nel 1512
nell’isola di Gerba che era un grande covo di predoni e vi creo la sua
base alternando le ruberie di pirata alle azioni di guerra del corsaro
che gli valsero grande fama tra le popolazioni locali.
Nel 1516 conquisto Algeri costituendo un regno personale, ma gli
spagnoli non gli dettero tregua e, cacciatolo di li, lo inseguirono fino
al Marocco e lo uccisero nel 1518. Suo fratello, detto il Barbarossa,
dichiaratosi vassallo del sultano turco di Costantinopoli Solimano il
Magnifico già installatosi in Egitto, in nome di lui riprese Algeri e
gli altri presidii spagnoli della costa algerina tranne Orano e
ricostituì il regno formalmente dipendente dalla Turchia, e si diede a
fare scorrerie nel Mediterraneo. E fu così fortunato che il sultano nel
1534 lo nominò ”capitano del mare”, cioè comandante supremo della
flotta imperiale turca e gli diede armi e forti somme di danaro per le
sue imprese. Egli fu il vero organizzatore della guerra di corsa e con
la sua potente flotta formata da navi veloci con- dotte da uomini
attirati solo dalle rapine, non conobbe praticamente sconfitte.
Inseritosi nella lotta tra il re Francesco I di Francia e l’imperatore
Carlo V, primo come re di Spagna, in quella che fu detta un’empia
alleanza, col cristianissimo re francese, cominciò ad attaccare, oltre
alla Spagna, l’Italia meridionale e la Sicilia, viceregni spagnoli:
nello stesso anno 1534 devasto diversi villaggi costieri siciliani e
calabri, si spinse fino a Napoli, saccheggio Procida e Terracina, sbarco
a Sperlonga distruggendola e prosegui fino a Fondi per catturare la
bella contessa Giulia Gonzaga e mandarla come dono prelibato a Solimano,
ma la donna, avvertita in tempo, riuscì di notte a fuggire in camicia,
e i fondani per la rabbia furono massacrati.
Al ritorno dall’Italia, il Barbarossa, profittando di una lite
dinastica, s’impossessò anche di Tunisi, in nome del suo sultano.
Carlo V, preoccupato a difendere i suoi domini sempre più minacciati,
organizzò una grossa spedizione punitiva e il 15 giugno 1535, con 400
navi cariche di 30 mila uomini, sbarco in questa città che era difesa
da 50 mila fanatici musulmani e l’assedio con un infernale fuoco di
artiglieria, finché la prese fra il 14 e il 20 luglio, saccheggiandola
con un ricco bottino di armi francesi, costringendo il corsaro alla fuga
e liberando un gran numero di cristiani che erano stati presi durante le
razzie.
L’imperatore, che avrebbe dovuto continuare l’operazione con l’occupazione
di Algeri e altri centri, non seppe trarre vantaggio da tale successo e
si ritiro. Sbarcando a Trapani il 17 agosto, si accinse a visitare per
la prima volta, con un migliaio di uomini al seguito, i suoi due
viceregni: entro in Palermo il 13 settembre, poi a Messina, e il 3
novembre approdo a Catona traversando a cavallo la Calabria, lungo la
strada re- gia, e la Basilicata; si fermo alla Certosa di Padula ove i
monaci prepararono per lui e i suoi una frittata di mille uova, passo
tra folle stupite, per Salerno, per Cava dei Tirreni il 5 novembre, per
Torre Annunziata, Torre del Greco, Portici ove si fermo dal 22 al 24
nella fastosa villa Leucopetra di Bernardino Martirano, segretario del
viceregno (la villa fu in seguito distrutta e al suo posto e oggi, al
corso Garibaldi n. 239, la villa Xava che mostra sulla facciata una
vecchia lapide in latino ricordante l’avvenimento); entro infine in
Napoli il 25 novembre, accolto fra grandi feste, dal viceré don Pedro
di Toledo. Il Barbarossa riorganizzò le sue forze e nel 1536 fece
ancora incursioni sulle coste calabre e napoletane; l’anno seguente,
affiancato dalla flotta del sultano, tento di sbarcare sulle coste della
Puglia, costretto a ritirarsi per il pronto intervento spagnolo.
Inflisse nel 1541 alle imponenti forze di Carlo V giunte davanti ad
Algeri per un tentativo di riconquista, una disastrosa disfatta; poi era
di nuovo all’attacco, sbarcando l’anno seguente a Policastro e nel
1543 con 12 mila uomini costringeva alla resa Reggio incendiandola e
facendo un gran numero di schiavi, nel 1544 a Ischia e a Procida
catturando oltre 4 mila abitanti, devastava le coste campane con
tentativi contro Baia e Pozzuoli, prendeva Lipari traendo schiavi 7 mila
abitanti, e di- struggeva Cariati in Calabria. Nel frattempo si rendeva
tristemente famoso l’astutissimo Dragut che, tolta Tripoli agli
spagnoli, costituiva nel 1551 un altro regno personale vassallo della
Turchia. Protetto anche lui dal sultano e dal re di Francia, da qui
infierì per diversi anni contro numero - se località costiere dell’Italia
meridionale e fece razzie feroci ovunque approdo, dando un tragico
impulso al commercio degli schiavi. Un’altra flotta di oltre 100
galere, guidata dal turco Pyaly Mustafà, nel giugno 1558, per
istigazione del re francese, aggredì Massalubrense e Sorrento prendendo
4 mila persone, e fece razzie sulla costa fino a Torre del Greco. Ancora
Dragut sconfisse gravemente presso l’isola di Gerba nel 1560 una
flotta di 80 navi con 12 mila uomini inviata da Filippo II di Spagna;
riunì nel 1565 la sua flotta a quella di Solimano per dare ’assalto a
Malta, ultimo baluardo di difesa europea. 30 mila turchi e corsari, con
nuovissime armi da fuoco, si lanciarono con lui contro i 17 mila
difensori dell’isola al grido di ”Allah!”; egli fu colpito a morte
e gli assalitori, per il sopraggiungere di una flotta cristiana, si
ritirarono. Il 7 ottobre 1571 l’armata della lega cristiana
distruggeva completamente la flotta turca nella memorabile battaglia di
Lepanto e fermava per un po’ l’espansionismo di Costantinopoli nel
Mediterraneo.
Ciro Di Cristo. (”La Torre” - marzo 1981)
Un episodio
di brigantaggio
nella Torre dell’Ottocento
Dopo l’annessione del Regno delle Due Sicilie avvenuta alla fine del
1860 le masse popolari dell’Italia meridionale si ritrovarono a vivere
nelle misere condizioni sociali ed economiche di sempre. In regioni dove
dominavano ancora il baronaggio e il latifondo, particolarmente grave si
presentava la situazione dei contadini e dei braccianti che costituivano
la maggioranza della popolazione: questi erano costretti a lavorare per
un padrone autoritario e orgoglioso, sfruttati in modo brutale, in
condizioni di arretratezza e di miseria che erano frutto della povertà
del suolo, della lontananza dall’Europa industriale e di un malgoverno
secolare. Ma nell’animo di quelle popolazioni l’odio per l’oppressione
e lo sfruttamento fu reso più aspro dalle delusioni per il fallimento
di promesse di benefiche riforme e di una grande speranza di rinascita.
In una situazione di grave malessere sociale ed economico s’innestarono
dei fatti politici, come lo scioglimento, da parte di Garibaldi, dell’esercito
napoletano che tolse agli ex soldati di Francesco II ingiuriati e
derisi, ogni possibilità di reinserirsi nella vita civile e li rese
disponibili a qualsiasi avventura; il licenziamento, da parte del
Governo italiano, dell’esercito garibaldino che nel frattempo si era
ingrossato con l’accorrere di delinquenti comuni, falsi liberali,
evasi dalle carceri, mendicanti, vagabondi e montanari affamati che
speravano di ottenere il condono e l’assunzione in servizio regolare
(provvedimento in se stesso onesto che fece, però, aumentare il numero
degli sbandati e il vuoto delle forze militari); l’aggravamento delle
imposte e l’estensione anche al Sud della coscrizione militare
obbligatoria che allontano dal lavoro molti giovani e peggioro le
condizioni economiche delle famiglie.
Molti meridionali si convinsero sempre più che il nuovo Governo non
sapeva comprendere le necessità del Mezzogiorno. Frattanto lo
spodestato Francesco II, da Gaeta prima e dopo la caduta di questa, dal
suo rifugio romano, risolse di adoperare gli scontenti meridionali per
una guerriglia contro l’usurpatore piemontese, cercò di organizzarli
per riconquistare il suo regno, con l’appoggio dello Stato Pontificio
ostile all’unita nazionale, che forniva armi e denaro. I ”cafoni”
aderirono e divampò cosi il brigantaggio, un male antico affidato gia
all’iniziativa di pastori e contadini affamati che si davano alla
macchia per assalire e spogliare la gente, saccheggiare, sequestrare e
imporre taglie, e che ora assumeva carattere politico. Le bande dei
fuorilegge divennero numerosissime nell’Abruzzo, nel Molise, nella
Terra di Lavoro, nel Matese, in Capitanata, in Basilicata, in Calabria;
furono formate da uomini decisi, rotti ad ogni avversità, guidate da
capi famosi per la loro audacia (fra i tanti il Crocco, ex pastore e
disertore, di cui abbiamo recentemente rivissuto le gesta nello
sceneggiato televisivo ”L’eredita della priora”).
Il brigantaggio fu considerato dal Governo italiano un’esplosione di
delinquenza e di insubordinazione politica e venne perciò combattuto
con estrema energia, con l’intervento di veri eserciti di soldati e di
carabinieri ed ebbe il carattere, dal 1861 al 1870, di una vera guerra
civile, con migliaia di morti fra le due parti combattenti e fra i
cittadini, fucilazioni in massa, deportazioni, distruzioni di interi
paesi e incendi di foreste. Anche la zona vesuviana ebbe il suo bravo
brigante. Antonio Cozzolino nativo di Boscotrecase, detto Pilone per la
sua villosità e per la folta barba, fu prima scalpellino della pietra
vesuviana. Fu arrestato una prima volta a causa di alcuni dissidi avuti
col comandante della guardia urbana di Boscotrecase per porto d’armi
abusivo, poi liberato. Nel 1860 in Sicilia, quale soldato dell’esercito
napoletano, combatté contro i Mille di Garibaldi e compi un atto di
valore col prendere in battaglia una bandiera ”piemontese” che venne
esposta poi nella Reggia di Portici. Dopo l’annessione del Regno delle
Due Sicilie si fece brigante di Sua Maestà borbonica e con la sua banda
infesto tutta la zona vesuviana, fra Ottaviano, Boscotrecase, Boscoreale,
Torre Annunziata e Torre del Greco. Aveva ottima conoscenza del Vesuvio
e delle numerose cavità laviche che fungevano da nascondiglio e per
parecchio tempo riuscì a nascondersi e a non farsi prendere dalle forze
dell’ordine. Xel 1861, in piazza Annunziatella a Boscotrecase, assali
e sequestro in pieno giorno il marchese Avitabile, direttore del Banco
di Napoli, che aveva una villa poco distante dai Camaldoli e passava di
li in carrozza; fece poi sapere alla fami- glia che questi sarebbe stato
ucciso se entro tre giorni non gli fosse stata versata la somma di 20
mila ducati tutti in oro; indico il modo con cui la persona incaricata
di portare il danaro avrebbe potuto raggiungere lui, cioè Pilone.
La famiglia Avitabile non era in grado di mettere insieme tutto ad un
tratto la somma e ricorse a parenti ed amici. Un amico ebbe l’incarico
di portare il denaro richiesto nel luogo indicato, quasi sulla cima del
Vesuvio e pensando di far risparmiare agli Avitabile parte di esso,
nascose 10 mila ducati e si presento al brigante. Trovo questi con tre o
quattro dei suoi che lo aspettava: all’offerta del venuto, il Pilone
si ritiro in di- sparte per deliberare coi suoi, poi torno dicendo che
si accontentava. Stese a terra il mantello e il denaro fu contato. Poco
dopo comparve il marchese. ”Potete andare - disse Pilone - e
perdonateci”. Il marchese e l’amico erano gia lontani quando furono
richiamati, con sommo sgomento, da uno dei briganti. ”Ecco il vostro
fucile - disse questi al marchese - ve lo riporto acciocché non diciate
che siamo dei ladri”. Lo stesso Pilone assalì, sulla strada che porta
al Vesuvio dal versante di Boscotrecase, il corteo con l’allora
principe Umberto di Savoia il quale non venne maltrattato, ma fu
spogliato di tutto ciò che aveva e rimandato indietro.
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Occupo poi, per stabilirvi il suo quartier generale,
la Villa delle Ginestre in Torre del Greco, che apparteneva ai Ferrigni,
nobile famiglia napoletana che aveva ospitato li il poeta Leopardi fra
il 1836 e il 1837. Enrichetta Carafa Capece-Latro, che ebbe come nonna
materna Enrichetta Ranieri sorella di Antonio che fu amico del poeta
recanatese e come nonno materno Giuseppe Ferrigni, proprietario della
villa torrese, in un libretto che fa la storia della stessa villa,
racconta che il brigante minaccio con le pistole il guardiano e la
moglie, costringendoli ad aprire la casa; che la banda, venuta a sapere
poi dell’avvicinarsi della gendarmeria, si allontanò e che i due
guardiani furono arrestati per favoreggiamento e condannati a dieci anni
di carcere che scontarono. ”Ricordo - scrive la Carafa dopo molti anni
- di aver visto in casa di mia nonna i due vecchietti usciti dal
carcere. Io, bambina, li guardavo con un misto di curiosità e di
terrore. L’uomo non parlava, ma la donna, una vecchietta arzilla, col
viso grinzoso come una mela d’inverno, raccontava vivacemente la loro
terribile avventura. ’Bisogna compatirci, diceva; se li aveste veduti
quei diavoli! Da una mano avevano la pistola e dall’altra una borsa
piena d’oro’. Dopo molti combattimenti contro i ”piemontesi”,
rapi- menti ed imprese, Pilone fu costretto a lasciare il napoletano e a
rifugiarsi nello Stato Pontificio dove si recavano tutti quei briganti
che cercavano un luogo sicuro in caso di pericolo. Qui, pero, fu
incarcerato. Riuscito ad evadere, fu ospitato da Francesco II nel
palazzo Farnese e rimandato nel 1869 a Napoli perché riprendesse la sua
criminosa attività. Tradito da un compagno, il 14 ottobre 1870, a
Napoli cadde in un agguato tesogli dalla polizia napoletana. Scontratosi
con gli agenti nei pressi dell’Orto Botanico in via Foria, tenne testa
coraggiosamente agli assalitori; ma colpito da una pugnalata sotto il
cuore da un appuntato di P.S., tenendosi la mano sinistra sulla ferita,
cerco con la destra armata di pugnale di colpire il suo feritore ed una
guardia accorsa, Ridotto all’impotenza, fu caricato su una carrozza e
trasportato in Questura ove spiro poco dopo. Intorno al collo gli venne
trovato un abitino (un sacchettino di stoffa che la gente del popolo
porta per devozione con qualche reliquia) dentro il quale furono trovate
immagini di santi; in tasca aveva un pezzetto di carta sul quale fu
scritto ”Antonio Cozzolino io sono figlio della Madonna Addolorata
perché in cielo ce il signore che più di esso ce il padrone”. Nel
portafogli aveva 40 lire e un abicì seguito dalla dottrina cristiana
(Pilone era devoto a modo suo). Finita nel vicolo cieco della violenza
fine a se stessa, la guerra dei briganti era fatalmente destinata alla
sconfitta, anche perché la protesta si esplicava in senso contrario
alla storia, cioè a favore dell’assolutismo borbonico e contro gli
istituti liberali e l’idea unitaria che avevano ormai trionfato in
Italia.
Ciro di Cristo (”La Torre” - 19 giugno 1980).
Lucrezia d’Alagno
breve storia di un
grande amore a Torre.
Lucrezia era figlia di Nicola d’Alagno e Covella Toraldo. Il padre,
amalfitano d’origine, era signore di Torre Annunziata - assegnatagli
in burgensatico dalla regina Giovanna II e dove c’e una strada col suo
nome - e possedeva in Torre del Greco un vasto ”orto fruttato” con
alcune case in località Largo della Corte confinante con il Vallone,
attuale Via XX Settembre. Detta località corrispondeva, press’a poco,
alla zona compresa fra le odierne strade Piscopia, Piazza Palomba, XX
Settembre e Bufalo; è possibile che una delle case sia quella esistente
in Via Umberto I, angolo Vicolo Pizza, e che in essa dimorasse Lucrezia.
In seguito l’orto divenne proprietà della Casa Santa dell’Annunziata
di Napoli che lo censurò e vi si fecero abitazioni; quella casa divenne
proprietà di Francesco Balzano, storico torrese del 1600. Il ricordo di
Lucrezia ci viene dalla denominazione attuale dei quattro vicoli a monte
del Corso Umberto I: Orto della Contessa. Tale denominazione è antica e
forse risale al tempo di Lucrezia. In quell’orto avvenne l’incontro
fra Lucrezia e Alfonso. S’era nel 1448.
Il cinquantaquattrenne Alfonso, magnanimo re d’Aragona, Napoli,
Sicilia, Sardegna, Corsica ecc., era venuto a Torre del Greco e (o vide
Lucrezia ad una finestra o, come ho accennato, costei gli andò incontro
per avere la strenna che le ragazze solevano chiedere la vigilia di S.
Giovanni Battista) se ne innamorò perdutamente. Lucrezia poteva avere
diciotto anni. Alfonso, per starle sempre vicino e corteggiarla, si fece
costruire una stanza nell’orto; la notte si ritirava nel castello -
attuale palazzo municipale, da lui fatto restaurare, non costruire come
dice qualche storico - perché era meglio custodito.
La Fontana - fatta costruire dal re - era luogo di frequenti passeggiate
degli innamorati che vi si recavano dal castello. Nella stanza dell’orto
e nel castello furono ricevute molte ambascerie, ed alcune importanti, e
promulgate parecchie prammatiche datate: Torre Ottava. Alfonso non si
divise mai più da Lucrezia. Con essa, però, non dimorò sempre a Torre
del Greco, ma, pure a Pozzuoli, a Caiazzo e a Napoli, ove fece
effettuare in onore di lei fastose giostre e sontuosi conviti a
Castelnuovo e nel Castel dell’Ovo. Anche nel castello di Torre del
Greco furono date splendide feste. Il re fu tanto munifico verso l’amata
che essa in pochi anni acquistò fra l’altro, S. Marzano, Caiazzo,
Somma Vesuviana; e prima di morire le dono il castello e l’isola d’Ischia.
La munificenza del re si estese ai familiari che ottennero uffici,
privilegi, feudi, titoli no biliari. Lucrezia fu attaccata al danaro e
ci tenne allo sfarzo, ma la sua idea fissa - ispiratrice della sua
condotta - fu quella di divenire la moglie di Alfonso e legalmente
regina.
Tanta ambizione degna di tal donna era ostacolata dal matrimonio del re
con Maria di Castiglia, vivente in Ispagna e separata dal marito da
decenni. Attesa e sperata inutilmente la morte di Maria, gli innamorati
confidarono nell’aiuto del papa Callisto III al quale decisero di
chiedere l’annullamento del matrimonio per sterilità della regina:
don Ferrante, erede e successore di Alfonso nel regno di Napoli, era
figlio naturale.
Nel settembre od ottobre 1457, Lucrezia parti da Torre del Greco per
Roma, come una regina. Il corteo di dame e gentiluomini comprendeva
cinquecento cavalli. E come regina fu ricevuta, accolta e trattata dal
Papa, dalla corte pontificia e dal popolo. Grandi onori, sfarzose feste,
solenni ricevimenti. Ma di bolla per l’annullamento del matrimonio il
papa non ne volle sapere. Alfonso Borgia, una volta segretario del re,
era ormai Callisto III, pontefice massimo, e più della riconoscenza per
l’antico padrone benefattore e della benevolenza di Lucrezia, si
preoccupo - da quel buon canonista che era, nonostante la fama di
eccessivo nepotismo - del diritto e della coscienza, e ebbe paura di
andare, com’egli stesso disse, all’inferno insieme con Lucrezia.
E Lucrezia non fu regina. Tornata a Napoli, fu accolta con tripudio. Ma
le feste non distrassero gli innamorati dall’amarezza e dal dispetto
per il ricusato favore. L’amore e la fortuna di Lucrezia durarono
pochi mesi ancora. Il 27 giugno 1458 il re mori nel Castel dell’Ovo.
Finì anche la pace del regno: Ferrante I non fu riconosciuto re dal
papa e fu pure scomunicato; intrighi, congiure e ribellioni dei baroni;
guerre. Gli invidiosi nemici di Lucrezia, approfittando che lo stesso re
Ferrante le era contrario e ne ambiva le ricchezze - nonostante che
Lucrezia gli avesse dato molto danaro per tenerlo buono -, si
sbizzarrirono nella più volgare diffamazione. Le ostilità dello sleale
re si palesarono e divennero dannose fino a revocarle la contea di
Caiazzo e Lucrezia si dovette ritirare nel suo castello di Somma -
Ottaviano, o Venosa, come scrissero rispettivamente gli storici F.
Balzano e S. Ammirato -. Poi, l’inimicizia divenne pericolosa e
Lucrezia, dopo d’essere stata inutilmente assediata in quest’ultimo
castello, fuggi in Puglia sotto la protezione di Giovanni d’Angiò e
del principe di Taranto, in guerra con Ferrante. Questa fuga fu pur essa
oggetto di malignità e s’insinuo che Lucrezia fosse amante del
capitano di ventura Jacopo Piccinino. Dalla Puglia fu costretta a
trasferirsi in Dalmazia; di qui passo a Ravenna e poi a Roma, dove si
diede da fare per tornare a Napoli, e dove mori il 23 settembre 1479
ancora giovane e bella, quasi povera e dimenticata. Pare che sia stata
seppellita nella Chiesa di S. Maria sopra Minerva. Il nostro F. Balzano
scrisse che Lucrezia non vecchia in Dalmazia, conformemente al Pontano.
E. De Gaetano (”La Torre” - 6 luglio 1956)
I secoli del terrore
musulmano:
guerriglia sul mare
fra Torresi
e Barbareschi.
Le incursioni dei barbareschi contro le coste del viceregno furono
intense e spietate, terrorizzando le popolazioni, poiché la tratta
degli schiavi rappresentava la risorsa economica dei paesi nordafricani.
Il vicere don Pedro di Toledo fece costruire dal 1532 delle torri
costiere guardate da una milizia stanziale pronta a dare l’allarme
alle popolazioni e dotate di artiglieria da fuoco e di catapulte contro
le navi nemiche.
Il vicere Perafan de Ribera imparti nel 1563 l’ordine di completare, a
spese delle singole Università, il sistema difensivo con una catena di
torri a vista, massicce a forma di piramide tronca su base quadrata,
lungo tutte le coste meridionali. Tale barriera si dimostrò, però,
inadeguata, anche per la mancanza di una flotta di appoggio e non valse
a scongiurare le incursioni. A volte i marinai che navigavano e si
trovavano esposti ai pericoli degli assalti, si fecero coraggiosi e
affrontarono i predoni africani. I Torresi, che nel Cinquecento andavano
a pescare il corallo nei mari di Ponza, della Sardegna e della Corsica,
misero al loro servizio dei corsari di mestiere che li difendessero,
come quel tale Andrea Maldacena, che - come ricorda lo storico Balzano -
”fu famoso corsaro di questa Torre, flagello dei Turchi e terrore
delle loro marine, depredando tutti i lidi di Barberia e diede una volta
l’arrembaggio ad un vascello barbaresco trovandovi a bordo una statua
della Madonna col Bambino precedentemente tolta a cristiani, statua che
fu da lui portata a Torre e donata al signore locale principe di
Stigliano e collocata poi, col nome di Madonna di Costantinopoli, nell’omonima
chiesa fatta appositamente costruire nel borgo intorno al castello”.
Nel 1688 ancora i Torresi avevano 400 barche per la pesca del corallo, e
alla fine del Settecento ne avevano 600. Dal 1780 si avventurarono anche
sulle coste dell’Africa settentrionale ove trovarono ricchi banchi
coralliferi. Stabilirono la loro base sull’isola di Galita, presso la
costa tunisina, costruendovi ricoveri con provviste ed ebbero con sé un
medico e, come assistente spirituale inviato dal parroco Vincenzo
Romano, il sacerdote concittadino Gerardo Palomba che su quella terra
lontana e solitaria celebrava per essi la messa nei giorni festivi.
Per attendere il più tranquillamente possibile al loro lavoro, opposero
ancora dei corsari che, incrociando il mare, cercavano di prevenire ogni
sorpresa. Così assoldarono, fra gli altri, il loro concittadino Gennaro
Accardo ”riconosciuto idoneo per abilita e ardire” che, col figlio
Giuseppe, faceva loro la scorta con una galeotta equipaggiata con uomini
armati di cannoni e catapulte, schioppi, pistole e sciabole; si
segnalano altri corsari come il torrese Agostino del Dolce e il liparita
Francesco Gliuttieri. Ma le piccole barche non furono sempre in grado di
opporre seria resistenza ai predoni, per cui annualmente numerosi
marinai finirono catturati. Casi di cattura e di spoliazioni a danno dei
corallari torresi si leggono in Di Donna, come pure quello del citato
sac. Palomba che nel maggio 1816 fu preso e condotto a Bona, in Algeria,
in una prigione oscura, sudicia e fangosa, stracolma di 200 cristiani
inabili o feriti i quali, sotto i suoi occhi inorriditi, furono scannati
”come porci” e fatti a pezzi in un mare di sangue. (L’Università
della Torre del Greco). Per il riscatto degli sfortunati prigionieri
meno abbienti di ogni paese, che a migliaia, incatenati, languivano
penosamente nei luridi baraccamenti africani, provvedevano ordini
religiosi e istituzioni benefiche che raccoglievano, mediante elemosine
ed elargizioni, le somme di denaro necessarie, oro e preziosi e
inviavano i loro ”redentori” a trattare con i barbareschi. A Napoli
vi fu la ”Real Casa Santa per la Redenzione dei Cattivi” (cattivo,
dal latino ”captivus” = prigioniero) che aveva sede nella chiesa di
S. Maria della Redenzione dei Cattivi, alle spalle di Port’Alba; a
Torre vi furono il ”Pio Monte dei Marinai” nella ricordata chiesa
della Madonna di Costantinopoli e la nobile ”Arciconfraternita dei
Bianchi” nella cappella di S. Maria della Misericordia (o di S.
Giovanni decollato) adiacente alla chiesa di S. Maria del Popolo, sulla
Strada Regia verso Napoli.
Ciro Di Cristo. (”La Torre” - 8 aprile 1981)
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