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LIBRO "DA MAGONZA TORRE DEL GRECO"
di Luigi Mari
STORIA, TECNOLOGIA POLIGRAFICA,
CULTURA, ANEDDOTICA, DIVAGAZIONI, UMORISMO, PROBLEMATICHE ARTIGIANALI, NELLA
PLAGA VESUVIANA.
Argomentazioni mai trattate in maniera
così piacevole.
La stampa offset e quella rotocalco, non altro che l’evoluzione di due antiche
tecniche in letargo. La cibernetica, applicata ai sistemi planografici, trionfa
vittoriosa, ma preclude il lavoro a misura d’uomo. II cervello umano viene in
buona parte rimpiazzato. In più le macchine-robot non sbagliano quasi mai, non
si angosciano, né, però, sanno amare. Lavoratore comune non servi più, altri
uomini fabbricano quanti ne vuoi di te, meno costosi, per nulla esigenti in
materia di diritti. Sventurati artigiani in genere: ciabattini, orologiai,
sarti, falegnami, addio! Bottegai tipografi campani, sopravviverete sostenuti
solo dalla poesia del piombo fuso e dal nostrano proverbiale nutrimento d’aria,
sole e canzoni? Care botteghe fuligginose, adattate negli stambugi nascosti dei
dedali mai risanati della Napoli povera di delbalziana memoria, o nei tuguri
addossati nelle cupe traverse dei numerosi centri urbani abbarbicati alle
pendici del Vesuvio, o quelli che vanno da Capo Miseno alla Punta della
Campanella, o altri ancora dell’entroterra, fino al Casertano, all’Avellinese,
al Beneventano, addio! E’ destino che il popolo, altro che sovrano, in ogni
epoca debba subire nuovi malesseri? II benessere edonistico dà l’illusione di
una migliore qualità della vita; in realtà il consumismo coercizzato dalla
«grancassa», alla quale le arti grafiche si asservono in misura massiccia,
risponde essenzialmente ad una inferma domanda di dipendenza
oggettuale-alimentare. Ma il vero benessere, l’amore, cioè la salute mentale,
quale società, quale reame, quale cultura I’ha mai garantita o la garantirà
mai? Il domani, intanto, viene deciso prima sulle nostre ginocchia di madri,
dalle nostre figure di padri. Possibile
che l’uomo non trovi una strada finalmente idonea per scardinare l’antica
angoscia del suo insoluto esistenziale, vale a dire la devastante consapevolezza
del proprio destino di mortale, narcotizzata, invece, con reazioni difensive
diversificate e contrapposte, dall’annichilimento mistico alla criminalità?
Luigi Mari
Argomentando di "Salvatore
in quel di Bologna", slogan, questo, a cui sono affezionato, mi viene
spontaneo dire "il caso Argenziano". Caso perché egli rappresenta
l'emblematico di una essenziale sfaccettatura della rosa di problematiche
dell'area vesuviana, nella fattispecie il malore endemico: edonismo-egotismo di
una Torre del Greco allineata alle città italiane con un reddito, sperequato,
s'intende, di gran lunga superiore alla media nazionale e condizionata da
specifici masi chiusi economici di settore.
Il pragmatismo, si sa, fa a cazzotti con l'antica napoletanità umanistica,
pregna di suggestioni etico-religiose che non tenevano conto delle differenze di
classe se non per una logica gerarchica, ma che riusciva ad accomunare il malato
ricco con il malato povero davanti a Dio; anche se meno davanti al medico.
Il "caso Argenziano" è visto tale perché dimostra come la perdita di
pregi morali, elevatezze d'animo ed altri valori, dipendono più da un fatto
endemico geografico che da cause epocali di etnicismo più ampio o, addirittura
di vastità planetaria.
Torrese DOC, (e mi piace ripetere alla De Curtis: torresi si nasce e lui lo
nacque), Salvatore Argenziano con la sua collaborazione incondizionata a
Torreomnia, tiene alto il vessillo del torrese vecchia maniera, quello della
parola mantenuta o della solidarietà, della disponibilità; il torrese dei
baratti sui ballatoi di a laccia e putrusino; quello della "napoletana
fumante" che penetrava usci, porte e portelle di architettura spagnola,
oramai quasi totalmente falciate dalla ricostruzione.
Per il nostro concittadino il "tempo torrese" si è fermato nel
momento in cui mise piedi fuori la Porta di Capotorre; ideale pargolo imberbe
con alcuni anta, rivive oggi nitide le processioni profuse d'incenso e di afrore
degli anni cinquanta, le pollastre dei poveri fumanti lungo il ciglio delle
strade, i cazzabbocchi della Carmenella, i ceci e i semi di zucca tostati dei
miraggi hollyoodiani dei Gradoni e Canali.
L'evocazione nei "Ricordi" rivela i primi turbamenti giovanili
dell'autore causati dai tedeschi e dagli anglo-americani. Una "Recherche",
tuttavia, poetica, metricamente libera, quindi descrittivamente più autentica.
La Torre del Greco di mezzo novecento insieme a Salvatore Argenziano sono
l'idillio, due pargoli amanti, castigati dal sortilegio dell'amore
indissolubile, una Giulietta e un Romeo divisi da un destino incontrastabile, ma
uniti per sempre nell'animo.
Il torrese, in genere, che vive fuori porta (nella fattispecie di Capotorre)
idealizza e sublima la Patria del Corallo, soggiace alla nostalgia e al lucore
soffuso dei ricordi e questo lo risolleva dal giogo delle problematiche epocali
attuali dell'area geografica che lo ospita. Dietro questa molla Salvatore
Argenziano ha donato ai suoi compaesani, tramite Torreomnia, due gemme, per il
momento: "Ricordi" e il "lessico torrese-italiano", che
spera di ampliare con la collaborazione fattiva dei concittadini.
Dal primo componimento si evince la lirica che scaturisce dalla componente
onirica, prevalente sul fatto epico, eventi, date, bombardamenti, sfollati,
eruzione, ecc.
Tuttavia una storicità a mezza strada tra la storiografia e la cronaca, come
fatto descrittivo, ma tutto diafano, incerto e sicuro insieme, come il pensiero
lontano, come un perduto amore.
Una prosa in versi e dei versi in prosa, quelli di Salvatore Argenziano, che
descrivono e sottolineano non già solo l'accaduto, ma la velata apprensione
dell'accadibile che coinvolgono esistenzialmente la sfera affettiva di ogni
genere di lettore, fuori del tempo, fuori del luogo, fuori della realtà,
perché coinvolgono il dilemma eterno dell'uomo, animale sempre ossessionato dai
dualismi male-bene, amore-odio che allignano soprattutto nei conflitti bellici,
specie quello descritto appunto dall'Argenziano.
Ma, forse senza saperlo, o semplicemente perché egli vive fuori Torre, le note
amare del racconto, le bassezze e lo squallore di una guerra così
malapartianamente devastante hanno nociuto soprattutto non già solo sul morale
quanto la moralità dei vesuviani; Argenziano, quindi, vedeva preannunciato
quello che poi si doveva rivelare quel certo degrado della qualità della vita
nella cintura vesuviana, come una cancrena morale mai sanata, ma consolidata
dalle leggi spietate del business, dei mass-media-grancassa, dei feroci pseudo
modelli sociali propinati indiscriminatamente e gratuitamente anche in un'area
sociale che adoperava panacee e toccasana come le icone dei Santi, e gli
scongiuri in un unico ibrido rituale.
La nostalgica descrizione dei "Ricordi" si ricuce diritta alle odierne
guerre dell'animo umano, tra le stesse mura domestiche, tra lo stesso
condominio, tra la stessa città. E' importante leggere lo spaccato descrittivo
dell'Argenziano che subdorava già una vaga idea di un probabile 68 il quale,
insieme a giuste rivendicazioni, ha causato un distacco troppo netto e repentino
tra due generazioni favorendo, come dire, manodopera per i gestori dei mutamenti
epocali in fatto di edonismo, consumismo, europeizzazione fino alla
globalizzazione; mutamenti che saranno pure coerenti e consoni alle esigenze
tecnico-scientifiche e demografiche attuali ma che hanno compromesso fino
all'osso i tradizionali valori, i rapporti generazionali in un clima di totale
incomprensione, confusione e disadattabilità con i modelli sociali.
La seconda fatica di Salvatore Argenziano è il "vocabolario
torrese-italiano", un'opera meritoria che solo un torrese irriducibile come
lui poteva stendere. Egli compie una minuziosa ricerca per i termini più
reconditi. Un recupero di parole ed espressioni che vanno perdendosi nei meandri
del tempo. Proprio perché egli, lontano dalla terra natia, quindi meno
contaminato dai malesseri endemici della specifica area vesuviana, poteva
progettare e stendere con generosità, senza riserve e quant'altro di negativo
per Torre del Greco. Chiaramente si spera nella collaborazione di tutti perché
questo lavoro possa crescere, poiché molti termini precipui, di stretta
settorialità vengono tramandati solo verbalmente.
Ribadisco quello che ho detto in apertura: "il caso Argenziano" sia
antesignano per le vere iniziative culturali per Torre, fuori dai masi chiusi
della cultura locale; lontano dagli individualismi dottrinari e dai feticisti
della raccolta storica di notizie e foto, materiale spesso finito nelle
pattumiere dopo le inevitabili dipartite a cui è predestinato ognuno di noi.
Non dimentichiamo le parole del saggio: "il dolore può bastare a noi
stessi, ma per vivere veramente una gioia bisogna condividerla con gli
altri".
Luigi Mari
Da Introduzione Argenziano
...La poesia di Ciccio Raimondo ha forza nella voce caustica del
"trasgressivo a tutti i costi", in una dimensione e un parallelo, come
dire, pre-evolutivo; un messaggio, perciò, anche candido, quasi una
religiosità nella fisiologia erotica, che rasenta talvolta una sorta di
venerazione deistico-verginale della donna, un eterno femminino comunque
emendato nei suoi canoni classici, una sublimazione del fisiologico, ma
devastato immediatamente o contemporaneamente, spesso per ingerenze dalla stessa
donna, o della donna rivale nel ruolo di suocera, per subito rimanerne
ammaliati, per poi odiare, amare ed odiare ancora.
Una voce, in questi versi, che ha la pregnanza dell'autentico e la spontanea
icasticità dello scatto linguistico se pur costruito sul vernacolo partenopeo
ortodosso, speculare e modellato, però, sull'idioma torrese che, pur non
graficamente presente, verrà comunque colto dai corallini, che ne sentiranno la
musicalità, il ritmo.
Il vivianesco, il russiano, fino al digiacomiano soccombono, però, come
parametri soliti, non già per l'originalità dell'autobiografismo evidente, ma
per la profonda e complessa tematica psicosessuale di stampo partenopeo tipica
degli anni 60, che il Raimondo sembra solo sfiorare, con tocchi ironici lazzi e
frizzi, come a voler celare e difendere il lettore alleggerendo questa
problematica che comunque si evince. Esorcizzare con la nostra capacità di
sdrammatizzare, noi, vesuviani, che se dobbiamo dire: "Mi fai
piangere" diciamo "Mi fai ridere sotto gli occhi".
Uno spaccato dei sentimenti, dei pregiudizi, dei timori, degli egoismi e degli
egotismi, fuori etica, fino ad un mercanteggiamento della materia corpo come
fonte di benessere, come investimento di potere e di successo, come strumento di
plagio e di sopraffazione, come arma di tattiche meschine; comunque la violenza
psicologica dell'uomo contro l'uomo. Ciò evidenziato in un contesto geografico
con un reddito (sperequato) superiore alla media nazionale.
E sono certo che persino all'autore, infondo, possa sorgere il dubbio di quali
siano le vittime e quali i carnefici, se ci sono, o se sono da ritenere tali,
vista questa penosa instabilità epocale, tra screzi, ripicche, tradimenti,
immaturità, e folleggiamenti delineati nei personaggi descritti.
Luigi Mari
Da: Poesie di Ciccio Raimondo"
...(si era nell'immediato dopoguerra), ed entrambi,
quindicenni, parallelamente, ci preparavamo a soggiacere sotto un avvenire
ostico, intricato, spinoso che si dipanava da disarmonie domestiche, tristi
retaggi di molte famiglie d'allora, spesso schiacciate nei risvolti di un
mantice che ancora insufflava quotidianamente fame ed inedia. Disagi e
disequilibri alimentati dal disagio esistenziale della consapevolezza della
finibilità specie allora, superstiti, reduci e convalescenti dell'inedia,
dell'umiliazione, dello squallore in cui cade lo spirito durante i conflitti
bellici lunghi e devastanti.
Snaturalezze, separazioni, odi e rancori oppure annchilimento mistico,
rassegnazione, abbandono di se.
Dietro tale architettura di eventi, intrecciati in un disegno di esistenza ora
allucinante, ora onirico, soave e dolcissimo, nell'impeto e l'irruenza di
esorcizzare malori e fantasmi insidiatesi in infanzia, giovinezza e maturità
aspre e virulente, anche se non prive di gioie...
Luigi Mari
Da Personaggi "Gaetano Della Gatta"
Peppe D'Urzo è un autore prolifico e singolare. Le sue
ricerche sono incredibilmente analitiche, di introvabile valore didattico. I
lavori che vengon fuori sono "ritratti" dove non sfugge nemmeno il
particolare più minuto. Non solo.
Mentre una foto ritrae tutto ciò che è visibile, presente, Peppe allarga ad
estuario il suo pensiero ora sulla località, adesso sul personaggio, sempre nel
tepore della memoria, in maniera tale da rendere inevitabile quel sapore poetico
presente in tutte le reminiscenze. La Torre del Greco di Peppe è D'urzo stesso!
Come diceva di se Marotta: "la Napoli che racconto sono io, perché solo di
me so qualcosa, se lo so".
Gli scritti di Peppe D'Urzo non ostentano analisi scelta, egli non adopera
schiccherature mestieranti, dialettiche accattivanti per soggiogare e intimidire
il lettore, sacrificando la notizia, il contenuto. Il testo, di primo acchito,
va appena oltre la dimensione dell'annotazione, della cronaca, della
storiografia lineare, ma la prosa è certamente straordinariamente ancorata al
tessuto connettivo dei precordi, delle intense emozioni di un umanistico,
fidente, franco passato, quello dei nostri nonni, lontani dai covoni bancari,
dal pragmatismo e dall'asetticità.
I suoi racconti, dunque, i suoi "graffiti", le sue interviste celate e
mimetizzate nel componimento aperto e spontaneo fuggono a tutti i costi
l'artificiosità, ma scatenano l'emozione come le vecchie lettere degli
emigranti intrise di quintessenze.
Un secondo aspetto, non meno prezioso, che quasi passa inosservato perché
scontato persino per l'autore, è quello mimetico dei dialoghi, apparentemente
inesistenti; ma soprattutto emerge la certosina fatica glottologica che spesso
si estende sino alla filologia, poiché la terminologia torrese antica
vastissima e spesso sconosciuta, perché vetusta, è ricercata minuziosamente
non solo nell'etimologia, ma nella storicità della coniatura. Quasi un richiamo
alla sperimentazione gaddo-pasoliniana del dopoguerra. Testi, quelli del D'Urzo,
che, apparentemente lineari e illetterati nel senso artistico, (comunque privi
di artificiosità di mestiere, con buona pace di Croce o di Flora) , si rivelano
uno studio storico-aneddotico introvabile in tutti i suoi predecessori torresi.
Se si affonda nel substrato, intanto, si raccoglie, comunque, anche una prosa
dove contenuti e forma sfiorano, sforano e ritornano in un candore narrativo,
per così dire lirico, ispirato, ideale, fantasioso, anche se a tratti
tremendamente crudo di realtà materiale e biologica, con eventi anche tragici:
lutti, angosce, fusi immediatamente prima e dopo con esultanze, letizie, atti
d'amore. Ma come in ogni assimilazione letteraria molto dipende anche dalla
soggettività del lettore, dal suo gusto, dalla sua preparazione culturale,
dalla sua condizione emotiva, sociale, anagrafica infine.
E sono, senza dubbio, proprio atti d'amore dedicati alla sua cara Torre del
Greco che Peppe d'Urzo compie, quasi religiosamente, nell'emozione più intensa
e recondita, ogni volta che mette penna su carta. Ed egli ama Torre ogni ora,
ogni giorno, da sempre; da quando, pargolo, d'estate, sentiva il tepore del
nostro sole generoso sotto i plantari sullo scoglio francese, con le nari
narcotizzate dagli aromi delle pietanze materne traboccanti d'amore e di
benevolenza.
Solo un grande amore per le proprie mura, per la propria gente, giustifica la
fatica immane che compie da anni, instancabile, insaziabile di storie e di
fatti, di eventi e tradizioni.
Grazie, Peppe D'Urzo, grazie di amare così tanto la nostra città. Ti voglio
bene. Spesso, quando ti leggo, mi fai quasi "ridere sotto gli
occhi...".
Luigi Mari
Da Personaggi e località D'Urzo
Basilio Liverino quella mattina era solo l'uomo Basilio, un
pezzo di Torre vecchia maniera, un crostone del Campanile di S. Croce, un
basalto vulcanico tiepido dei marciapiedi delle antiche strade torresi dove
sedevamo spensierati e scapigliati mezzo secolo fa, col tepore che sentivamo
sotto le della Scala, con i corpicini d'infante rinfrescati immediatamente dopo
nelle estenuanti nuotate sotto il sole allo zenit o con i "cazzabbocchi"
della "Carmenella", il pioniere dei trans, per poi sdraiarci sulle
candide lenzuola delle nostre magioni-giardino di Torre antica.
Sapevo che egli, nei suoi precordi custodiva l'altro tesoro: la sua terra, la
sua gente, la sua infanzia, l'odore
della salsedine sulla scarpetta vulcanica a Portosalvo, le semmolelle con
le alici salate alle prime luci dell'alba, i panzarotti e le arachidi
tostate di "mmiez''a Torre", il profumo dell'incenso nelle veglie
natalizie di Santa Croce, l'odore intenso, narcotizzante, del corallo nelle
ceste ai piedi del suo letto.
Quel rosso carminio più costoso dell'oro, si scioglie come plasma nelle sue
vene di poeta del corallo, di vigoroso vesuviano, per alimentare il suo geniale
ciclo vitale, per nutrire il suo cuore celatamente generoso di napoletano
vecchia maniera, come lava ignea mai solidificata, come il sangue di S. Gennaro
nella sua teca che alimenta speranza, futuro, forza vitale.Basilio Liverino è
la personificazione del corallo, è il corallo stesso. Ai nostri tempi i bambini
nascevano dal cavolo, dalla zucca, Basilio è nato dalla fauna marina.
Chissà se è venuto alla luce nei fondali di Sciacca, negli oceani o, forse, la
sua cara mamma raccolse il suo rametto fetale nelle scogliere della Scala
perché, staccatosi dai banchi coralliferi, è venuto ad adagiarsi nel nostro
dolce, caro mare vesuviano, quello della nostra magnifica, gloriosa, martoriata
terra torrese risorta sempre come Araba fenice.
Luigi Mari
Da Corallarte "Basilio, l'uomo"
...Eppure, cari giovani torresi, siete migliori di noi anta,
credete, meno scaltri, più sinceri, meno cattivi, ma molto, molto, molto più
confusi ed indifesi. Noi anta siamo feroci nei giudizi: quando la tigre ammazza
l'uomo la chiamiamo "ferocia", quando l'uomo ammazza la tigre lo
chiamiamo "sport".
Un affermato artista torrese ha detto: "Non posso entrare nel sito di
Mari, ci sono anche artisti umili, terra terra"; un altro: "...e
che mi metto nel sito dove stanno pure gli zingari?" cioè i meno
abbienti, coloro i quali la civiltà e la libertà di pensiero danno una sia pur
flebile voce, perché ancora impera il raccapricciante detto torrese "
'e denare so' 'a voce 'e ll'omme!".
O si fa riferimento ad artisti umili, non "protocollati" dai masi
chiusi di certa intellighentzia, senza nome e legami clientelari. (Fatti
il nome e piscia a letto, diranno che hai sudato).
Che squallore! Che solitudine! ...E, retorica permettendo, molto spesso
dimentichiamo, come diceva Aulo Cellio, che la nostra vita è un attimo, il
resto o lo abbiamo già vissuto o non sappiamo se lo vivremo; e dimentichiamo
pure che, "dopo morti, puzziamo tutti allo stesso modo".
Per questo vi amo, cari giovani, perché a molti di voi almeno la cattiveria,
l'egoismo e l'egotismo non vi sfiorano, siete fuori dai baronati anche se siete
tutti uguali, portate una sorta di divisa interiore, non vi vedete mai bene
sulle foto perché i vecchi volponi detentori del potere soffocare in voi
l'autostima, sono gelosi della vostra intelligenza, della vostra cultura e della
vostra giovinezza, infine.
Per questo, forse, tutti tornate tardi la notte, vi destate tardi il giorno
dopo, parlate alla stessa maniera, trasgredite alla stessa maniera, amate alla
stessa maniera, addirittura, talvolta, morite alla stessa maniera. SEMBRA
SIATE STATI PROCREATI DALLA STESSA MADRE E DALLO STESSO PADRE!!!, cari,
meravigliosi giovani contemporanei, grazie di esistere. E' grazie a voi che i
"vecchi lupi consolidati" non divorano tutto e tutti come i pirana e
si dannano nella chimera del potere, nel terrore dei essere detronizzati dal
vostro futuro...
Luigi Mari
Da "Considerazioni"
...L'unico modo di non esser fratello a Torre è quello
d'esser parente, non già perché non si ami il proprio sangue, ma perché il
fratello uterino si ama da morto prima che da vivo. Infatti questa maniera
d'esser fratello, che è la meno ortodossa, fa sì che il fratello, morto in
vita, nasca non appena è sottoterra. Non ho mai visto amare un fratello vivo,
nella mia città, come l'ho visto fare con uno morto. La gioia, la felicità, la
lealtà che gli si nega da vivo gli si dà da morto. Veder amare un vivo a Torre
è una cosa disgustosa. Se si suol dire "i figli si baciano nel
sonno"si può anche dire, a Torre, i fratelli si baciano da morti. Si
spenderanno centinaia di migliaia di lire per il proprio cadavere, fiori, e
avvisi di lutto enormi; si verseranno mare di lagrime, ci si tormenterà allo
spasimo, si impazzirà dal dolore, là quando non s'aveva mai speso un soldo,
per il vivo, mai tormentati e mai impazziti. E' uno spettacolo commovente e
angoscioso, tanto che vale la pena di non esser fratello, e l'unico modo per non
esser fratello, a Torre, e quello d'essere figli alla stessa madre, da vivi;
figli di Dio da morti...
Luigi Mari
Da Giornalismo anni 70 "Fratello Torrese"
...E' grazie a mammà che la gioventù torrese, sin dalla
Creazione è la più bella del mondo. Che non si provi il Signore Dio, con tutto
il rispetto, a ficcare il naso nelle famiglie torresi e pretendere che la
sanità, il valore e soprattutto la bellezza dei giovani, che sono soprattutto
figli, sia anche merito suo. Che il Signore, a Torre, ancora con tutto il
rispetto, si interessi dei propri figli che son tanti sparsi in tutto il mondo,
perché i figli di Dio torresi sono prima figli di mammà. Ma se il Signore
dovesse proprio insistere che fare i figli belli sia anche o, addirittura, solo
merito suo, allora le mamme torresi finiranno con l'indispettirsi. E non si
lagnino i ministri di Dio se le mamme torresi finiscono con il non andare spesso
in chiesa e col pregare di meno, dicendo che il Signore da un po' di tempo a
questa parte va in giro dicendo che i giovani sono suoi figli più dei vecchi, e
che di figli vecchi non ha di che farsene, dal momento che gli «attempati»
sono solo «servi» di Dio. E provati a toccare un figlio a Torre, e guarda cosa
ti capita. Già, che un figlio è figlio fino alla morte. Perché solo dopo la
morte gli si da il permesso di vivere dove vuole e come vuole. E non c'è da
stupirsi, a Torre, se è il maschio a dire «torno da mammà». Ché se si prova
una femmina di tornare a casa materna viene presa a calci nel sedere; ché se si
prova una femmina a battere in ritirata gli vien rotta la testa e gli vien detto
che non sarà mai una mamma degna del propri figli (filgli maschi, s'intende)
perché essere madre dì femmine, a Torre, è la cosa più inutile di questo
mondo...
Luigi Mari
Da Giornalismo anni 70
"Gioventù torrese, ah che beata!"
...Spulciamo ora le note caratteriali dei miei torresi e dei
cittadini di molti centri vesuviani economicamente affermati, nonché di quella
Napoli commerciale che ha origine dai mercanteggiamenti lazzaronici e via via
coi traffici anglo-americani fino alla moderna borghesia del business partenopeo
vigente. Noi vesuviani, sin d'allora, anche per un'atavica scarsa dimestichezza
con la grammatica, abbiamo appreso trasversalmente quella ideologia frammista di
venerazione deistica ed eterno femminino; forse il concetto rientra emendato nel
nostro ordine di idee; soggiaciamo a mezza strada tra la passionalità
deisticoverginale e quella femminomatriarcale. La donna, nel napoletano, è da
temere, da venerare e da punire. I ruoli sono: vergineo da bimba (guai ai
pedofili nelle carceri napoletane); oggettuale-sessuale da giovane, dietro la
copertura sentimentale; possessivo-assolutistico da sposa; diabolico da suocera.
Il ruolo di madre, invece, conserva la sacralità deistica. Ma l'essenza sta nel
ruolo, e non nel soggetto, perché la stessa donna che sostiene i ruoli di madre
e di suocera contemporaneamente viene osservata da due ottiche contrapposte come
il dualismo bene-male.
In pratica tutto il meridione è sottoposto a questi canoni istintuali, ma più
a sud si va, più è intenso e connaturato il sentimento di essenza
deistico-verginale della donna, che prevale sugli altri ruoli...
Luigi Mari
da "Narrando sotto il Vesuvio"
I quartieri popolari con vecchie architetture spagnole, porte
e portelle, terrazze e balaustre, vasetti di garofani e rose. Il cuore del
proletariato torrese pre-post bellico. Il pidocchietto con Mammella nei miraggi
hollioodiani con i vari Ehston, Reves, Scott, Matur, Baker, Weissmüller; il
sentore acre e soffuso delle fatiscenze, carnacotta e fichi d'india, Feola
l'Acquaiola, in una Torre del Greco agro-dolce di un folklore ed una cultura
proletari quasi autarchici, a tratti fuori dalla storia, pur se dipanati da
canoni ancora imbevuti di viceregno e, talvolta, di logiche lazzaroniche; una
Torre del Greco, tuttavia, incancrenita da eruzioni, dopoguerre, e suggestioni
mistiche, in un contesto epocale lirico, destinato a soggiacere per estinguersi
sotto le sgherre pressioni di una involuzione etica, un edonismo devastante, un
pragmatismo ed un meccanicismo fuori d'ogni misura d'uomo.
Luigi Mari
Da Opere "Gradoni e canali"
Discorrere d'amore, oggi, in maniera
declamatoria e fiorita, dietro l'inevitabile apparenza messianica, risulta quanto meno frusto e retorico, per non dire anacronistico. Non posso dire, retoricamente, che ormai l'uomo è incapace di beneficiare delle virtù e dei valori di un tempo. Non citerò la rancida
massima:
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"Il migliore affare è quello di comprare
gli uomini per quello che valgono e venderli per quello che credono di
valere".
Intanto pure un bimbo di terza elementare sa che l'equilibrio del consorzio
umano rivacilla dopo corsi e ricorsi epocali perché sono venuti a mancare non
già i valori etico-religiosi in sé, ma i sostegni psichici che pure tra follie
di masse e battaglie cruente suggerivano al singolo la scelta di una presenza
terrena intellettivo-istintuale ora atarassica, per dirla con il tanto
partenopeo Epicuro, ora apotropaica, atta a scongiurare il negativo esistenziale
relativo all'interrogativo primario, inconscio, dell'uomo di carattere salvifico
post-mortale.
Al cospetto delle centinaia di foto antiche di questo sito ci sembrerà di
inspirare la fragranza di quintessenze orientali, per dirla ancora in chiave
retorica, dove compare qua e là un ciuffo d'erba, qualche viale alberato, un
brolo nei dedali, un verziere sullo sfondo di un androne.
Le strade palcoscenico si tramutano oggi in giungla urbana; gli interni,
sottomessi alle coercitive leggi di mercato; l'abbigliamento soggiogato dalle
convenzioni di un mercato pilotato da diaboliche strategie di marketing. Torre
del Greco, come tutte le città moderne, affoga nel concetto di benessere,
concretizzato pure da pressioni snobistiche, da smanie di sopraffazione. Le
vecchie foto sono una testimonianza inconfutabile rispetto alla rappresentazione
alfabetica di uno scrittore che, se pur in buona fede, soggiace sotto lo spirito
campanilistico, alterando certi aspetti, purgandone altri fino a mascherare
certe lordure.
Ma non basta; i contrasti interdomestici tra due generazioni conviventi, dovuti
ad un mutamento troppo rapido di ideologie e un crescendo di sovvertimenti
politico-sociali hanno causato persino nelle nostre famiglie di stampo
patriarcale vere e proprie idiosincrasie nei rapporti di gomito. A queste crisi
ha contribuito non poco un certo lassismo dei genitori, l'ingerenza protettiva
materna che offusca la figura del padre dietro ciechi cromosomici desideri di
riscatto di stampo femminista.
Ma dove sono finite le filastrocche risuonanti lungo le contrade barrocciabili,
dove qualche nonno, assiso su una pietra miliare farfugliava al nipote: "Cicci
bacco 'ncopp''a votta, chi 'o tira e chi 'o votta, chi 'o votta 'nda cantina,
Cicci bacco beve 'o vino"?
Dov'è finito il vociare logorroico, nelle due piazzette torresi, delle sode e
belle massaie, ignare dell'ossessione di scippi od estorsioni o del fantasma
interno dell'anoressia. E il gesticolare delle ragazze, chissà perché, sempre
copiose di forme, nel mercanteggiare quelle derrate che alimentavano in modo
genuino la loro opulenza fuori dal bisogno di cibarie sintetiche o composti di
laboratorio da assumere per via parenterale.
Mi urge uno stralcio retorico: sono andati per sempre i baci delle fanciulle,
che svaporavano la fragranza della clorofilla. Erano i tempi dei baci ad occhi
chiusi (oggi si dice come stupidi), per lasciare involare l'immaginazione: due
colombi cabravano sui crinali dei monti, indi veleggiavano indomiti, poi
andavano a posarsi leggeri sui prati intrisi di guazza primaverile nelle ville
vesuviane alle falde del Vesuvio, onde poter compiere, nei campi elisi, un atto
d' amore, giammai contaminati da glaciali introspezioni post-freudiane,
frigidizzanti e svirilizzanti.
Ma il benessere non è salute mentale, cioè amore. Il concetto dell'amore
assoluto e puro si riduce in una sola parola: Dio. Non ho detto cristianità,
buddismo, islamismo, ecc. queste sono dottrine, veicoli per condurre a Dio che
prevedono Dio-amore=immortalità. Demonio-male=assenza salvifica, quindi è un
amore che deriva spesso dal timore di soffrire. Dio non è ciò. Dio è amore e
basta, dentro e fuori di noi. Sempre.
Basta con l'analisi scelta, benvengano dialetti, solecismi, anacoluti, evviva
Gadda e Pasolini. Necessitano le nostre origini. Rinominiamo i nostri figli.
Basta con i Patty, Genny, Paul ed Omar. Concludo con una bella immagine di
Luciano De Crescenzo: Gli uomini sono angeli con una sola ala, non possono
volare che abbracciati".
Luigi Mari
Da: "Torre antica come messaggio d'Amore"
...Qualcosa che va al di là della suggestione o dell'ubbia.
Un recupero fisico vero, reale e non realistico, vivo e palpitante, come è vera
l'inesistenza di un confine tra la realtà e la fantasia anche quando si parla
di amore. Realtà e fantasia si fondono nel vero e nel metaforico e attingono i
lontani puerili candori e le purezze, oggi sotto il giogo di nostalgiche
reminiscenze, prigionieri di svigorimento ed inabilità per l'inevitabile
dissoluzione di benessere e letizia, destinati a sparire con la lucida,
scientifica, devastante consapevolezza del finire delle cose; e soprattutto del
nostro inevitabile finire.
Quindi un messaggio di recupero della materia utile ed attuale, che coinvolge e
sottintende, però, il recupero più nobile e sublime della psiche, della
felicità come salute mentale, come infinibilità dell'amore.
Amalia Vernacchia per certi aspetti ha realizzato in oggetti l'assunto del
famoso romanzo di Oscar Wild: "Il ritratto di Dorian Gray". L'eterno
dilemma della finibilità che può non finire se lo vogliamo?...
Luigi Mari
Da Artisti "Amalia Vernacchia"
Una sorta di autodifesa senza note caustiche, priva di toni
polemici non sarebbe tale; non sarebbe democrazia. Non trovando altro appiglio
certa intellighentzia, insomma gli addetti ai lavori, criticano la grafica
elementare e variopinta di questo sito, (perché dei contenuti si guardano bene
dal parlarne).
Certo, la nostra è una società di facciata, di conformismo, ma in Torreomnia
la pagnotta non c'entra; prevale sostenere la libertà, almeno lo sforzo di
farlo.
I criticoni, ossessionati dalla loro incapacità di costruire contenuti, sono
conformisti fradici e sostenitori del luk attuale, portabandiera dell'immagine
impeccabile e conforme: poi non sanno aprir bocca. Per loro creare
significa somigliare. Succubi della filosofia pappagallesca rivolta solo
ad intimidire e prevaricare con una sorta di nuovo insignificante latinorum,
penalizzando infine, tra l'altro, i poco iniziati che impiegheranno anni prima
di imparate a scovare i link mirmicolanti da microscopio presenti in quei rebus
a cui somigliano certe pagine web più quotate.
E' lo scotto delle dottrine acquisite, delle nozioni da esoterismo mestierante,
della seriosità e della pseudo professionalità. Diceva Galilei: La differenza
che passa tra il filosofo e il laureato in filiosofia è quella che intercorre
tra l'artista che crea il proprio quadro e il pittore che lo copia.
Luigi Mari
Da "Considerazioni" in questo sito
Gli scritti di Peppe D'Urzo non ostentano analisi scelta,
egli non adopera schiccherature mestieranti, dialettiche accattivanti per
soggiogare e intimidire il lettore, sacrificando la notizia, il contenuto. Il
testo, di primo acchito, va appena oltre la dimensione dell'annotazione, della
cronaca, della storiografia lineare, ma la prosa è certamente
straordinariamente ancorata al tessuto connettivo dei precordi, delle intense
emozioni di un umanistico, fidente, franco passato, quello dei nostri nonni,
lontani dai covoni bancari, dal pragmatismo e dall'asetticità.
I suoi racconti, dunque, i suoi "graffiti", le sue interviste celate e
mimetizzate nel componimento aperto e spontaneo fuggono a tutti i costi
l'artificiosità, ma scatenano l'emozione come le vecchie lettere degli
emigranti intrise di quintessenze.
Un secondo aspetto, non meno prezioso, che quasi passa inosservato perché
scontato persino per l'autore, è quello mimetico dei dialoghi, apparentemente
inesistenti; ma soprattutto emerge la certosina fatica glottologica che spesso
si estende sino alla filologia, poiché la terminologia torrese antica
vastissima e spesso sconosciuta, perché vetusta, è ricercata minuziosamente
non solo nell'etimologia, ma nella storicità della coniatura. Quasi un richiamo
alla sperimentazione gaddo-pasoliniana del dopoguerra. Testi, quelli del D'Urzo,
che, apparentemente lineari e illetterati nel senso artistico, (comunque privi
di artificiosità di mestiere, con buona pace di Croce o di Flora) , si rivelano
uno studio storico-aneddotico introvabile in tutti i suoi predecessori torresi.
Se si affonda nel substrato, intanto, si raccoglie, comunque, anche una prosa
dove contenuti e forma sfiorano, sforano e ritornano in un candore narrativo,
per così dire lirico, ispirato, ideale, fantasioso, anche se a tratti
tremendamente crudo di realtà materiale e biologica, con eventi anche tragici:
lutti, angosce, fusi immediatamente prima e dopo con esultanze, letizie, atti
d'amore. Ma come in ogni assimilazione letteraria molto dipende anche dalla
soggettività del lettore, dal suo gusto, dalla sua preparazione culturale,
dalla sua condizione emotiva, sociale, anagrafica infine.
E sono, senza dubbio, proprio atti d'amore dedicati alla sua cara Torre del
Greco che Peppe d'Urzo compie, quasi religiosamente, nell'emozione più intensa
e recondita, ogni volta che mette penna su carta. Ed egli ama Torre ogni ora,
ogni giorno, da sempre; da quando, pargolo, d'estate, sentiva il tepore del
nostro sole generoso sotto i plantari sullo scoglio francese, con le nari
narcotizzate dagli aromi delle pietanze materne traboccanti d'amore e di
benevolenza.
Solo un grande amore per le proprie mura, per la propria gente, giustifica la
fatica immane che compie da anni, instancabile, insaziabile di storie e di
fatti, di eventi e tradizioni.
Grazie, Peppe D'Urzo, grazie di amare così tanto la nostra città. Ti voglio
bene. Spesso, quando ti leggo, mi fai quasi "ridere sotto gli
occhi...".
Luigi Mari
Da Personaggi e località D'Urzo
Basilio Liverino quella mattina era solo l'uomo Basilio, un
pezzo di Torre vecchia maniera, un crostone del Campanile di S. Croce, un
basalto vulcanico tiepido dei marciapiedi delle antiche strade torresi dove
sedevamo spensierati e scapigliati mezzo secolo fa, col tepore che sentivamo
sotto le della Scala, con i corpicini d'infante rinfrescati immediatamente dopo
nelle estenuanti nuotate sotto il sole allo zenit o con i "cazzabbocchi"
della "Carmenella", il pioniere dei trans, per poi sdraiarci sulle
candide lenzuola delle nostre magioni-giardino di Torre antica.
Sapevo che egli, nei suoi precordi custodiva l'altro tesoro: la sua terra, la
sua gente, la sua infanzia, l'odore
della salsedine sulla scarpetta vulcanica a Portosalvo, le semmolelle con
le alici salate alle prime luci dell'alba, i panzarotti e le arachidi
tostate di "mmiez''a Torre", il profumo dell'incenso nelle veglie
natalizie di Santa Croce, l'odore intenso, narcotizzante, del corallo nelle
ceste ai piedi del suo letto.
Quel rosso carminio più costoso dell'oro, si scioglie come plasma nelle sue
vene di poeta del corallo, di vigoroso vesuviano, per alimentare il suo geniale
ciclo vitale, per nutrire il suo cuore celatamente generoso di napoletano
vecchia maniera, come lava ignea mai solidificata, come il sangue di S. Gennaro
nella sua teca che alimenta speranza, futuro, forza vitale.Basilio Liverino è
la personificazione del corallo, è il corallo stesso. Ai nostri tempi i bambini
nascevano dal cavolo, dalla zucca, Basilio è nato dalla fauna marina.
Chissà se è venuto alla luce nei fondali di Sciacca, negli oceani o, forse, la
sua cara mamma raccolse il suo rametto fetale nelle scogliere della Scala
perché, staccatosi dai banchi coralliferi, è venuto ad adagiarsi nel nostro
dolce, caro mare vesuviano, quello della nostra magnifica, gloriosa, martoriata
terra torrese risorta sempre come Araba fenice.
Luigi Mari
Da Corallarte "Basilio, l'uomo"
...Eppure, cari giovani torresi, siete migliori di noi anta,
credete, meno scaltri, più sinceri, meno cattivi, ma molto, molto, molto più
confusi ed indifesi. Noi anta siamo feroci nei giudizi: quando la tigre ammazza
l'uomo la chiamiamo "ferocia", quando l'uomo ammazza la tigre lo
chiamiamo "sport".
Un affermato artista torrese ha detto: "Non posso entrare nel sito di
Mari, ci sono anche artisti umili, terra terra"; un altro: "...e
che mi metto nel sito dove stanno pure gli zingari?" cioè i meno
abbienti, coloro i quali la civiltà e la libertà di pensiero danno una sia pur
flebile voce, perché ancora impera il raccapricciante detto torrese "
'e denare so' 'a voce 'e ll'omme!".
O si fa riferimento ad artisti umili, non "protocollati" dai masi
chiusi di certa intellighentzia, senza nome e legami clientelari. (Fatti
il nome e piscia a letto, diranno che hai sudato).
Che squallore! Che solitudine! ...E, retorica permettendo, molto spesso
dimentichiamo, come diceva Aulo Cellio, che la nostra vita è un attimo, il
resto o lo abbiamo già vissuto o non sappiamo se lo vivremo; e dimentichiamo
pure che, "dopo morti, puzziamo tutti allo stesso modo".
Per questo vi amo, cari giovani, perché a molti di voi almeno la cattiveria,
l'egoismo e l'egotismo non vi sfiorano, siete fuori dai baronati anche se siete
tutti uguali, portate una sorta di divisa interiore, non vi vedete mai bene
sulle foto perché i vecchi volponi detentori del potere soffocare in voi
l'autostima, sono gelosi della vostra intelligenza, della vostra cultura e della
vostra giovinezza, infine.
Per questo, forse, tutti tornate tardi la notte, vi destate tardi il giorno
dopo, parlate alla stessa maniera, trasgredite alla stessa maniera, amate alla
stessa maniera, addirittura, talvolta, morite alla stessa maniera. SEMBRA
SIATE STATI PROCREATI DALLA STESSA MADRE E DALLO STESSO PADRE!!!, cari,
meravigliosi giovani contemporanei, grazie di esistere. E' grazie a voi che i
"vecchi lupi consolidati" non divorano tutto e tutti come i pirana e
si dannano nella chimera del potere, nel terrore dei essere detronizzati dal
vostro futuro...
Luigi Mari
Da "Considerazioni"
...L'unico modo di non esser fratello a Torre è quello
d'esser parente, non già perché non si ami il proprio sangue, ma perché il
fratello uterino si ama da morto prima che da vivo. Infatti questa maniera
d'esser fratello, che è la meno ortodossa, fa sì che il fratello, morto in
vita, nasca non appena è sottoterra. Non ho mai visto amare un fratello vivo,
nella mia città, come l'ho visto fare con uno morto. La gioia, la felicità, la
lealtà che gli si nega da vivo gli si dà da morto. Veder amare un vivo a Torre
è una cosa disgustosa. Se si suol dire "i figli si baciano nel
sonno"si può anche dire, a Torre, i fratelli si baciano da morti. Si
spenderanno centinaia di migliaia di lire per il proprio cadavere, fiori, e
avvisi di lutto enormi; si verseranno mare di lagrime, ci si tormenterà allo
spasimo, si impazzirà dal dolore, là quando non s'aveva mai speso un soldo,
per il vivo, mai tormentati e mai impazziti. E' uno spettacolo commovente e
angoscioso, tanto che vale la pena di non esser fratello, e l'unico modo per non
esser fratello, a Torre, e quello d'essere figli alla stessa madre, da vivi;
figli di Dio da morti...
Luigi Mari
Da Giornalismo anni 70 "Fratello Torrese"
...E' grazie a mammà che la gioventù torrese, sin dalla
Creazione è la più bella del mondo. Che non si provi il Signore Dio, con tutto
il rispetto, a ficcare il naso nelle famiglie torresi e pretendere che la
sanità, il valore e soprattutto la bellezza dei giovani, che sono soprattutto
figli, sia anche merito suo. Che il Signore, a Torre, ancora con tutto il
rispetto, si interessi dei propri figli che son tanti sparsi in tutto il mondo,
perché i figli di Dio torresi sono prima figli di mammà. Ma se il Signore
dovesse proprio insistere che fare i figli belli sia anche o, addirittura, solo
merito suo, allora le mamme torresi finiranno con l'indispettirsi. E non si
lagnino i ministri di Dio se le mamme torresi finiscono con il non andare spesso
in chiesa e col pregare di meno, dicendo che il Signore da un po' di tempo a
questa parte va in giro dicendo che i giovani sono suoi figli più dei vecchi, e
che di figli vecchi non ha di che farsene, dal momento che gli «attempati»
sono solo «servi» di Dio. E provati a toccare un figlio a Torre, e guarda cosa
ti capita. Già, che un figlio è figlio fino alla morte. Perché solo dopo la
morte gli si da il permesso di vivere dove vuole e come vuole. E non c'è da
stupirsi, a Torre, se è il maschio a dire «torno da mammà». Ché se si prova
una femmina di tornare a casa materna viene presa a calci nel sedere; ché se si
prova una femmina a battere in ritirata gli vien rotta la testa e gli vien detto
che non sarà mai una mamma degna del propri figli (filgli maschi, s'intende)
perché essere madre dì femmine, a Torre, è la cosa più inutile di questo
mondo...
Luigi Mari
Da Giornalismo anni 70
"Gioventù torrese, ah che beata!"
...Spulciamo ora le note caratteriali dei miei torresi e dei
cittadini di molti centri vesuviani economicamente affermati, nonché di quella
Napoli commerciale che ha origine dai mercanteggiamenti lazzaronici e via via
coi traffici anglo-americani fino alla moderna borghesia del business partenopeo
vigente. Noi vesuviani, sin d'allora, anche per un'atavica scarsa dimestichezza
con la grammatica, abbiamo appreso trasversalmente quella ideologia frammista di
venerazione deistica ed eterno femminino; forse il concetto rientra emendato nel
nostro ordine di idee; soggiaciamo a mezza strada tra la passionalità
deisticoverginale e quella femminomatriarcale. La donna, nel napoletano, è da
temere, da venerare e da punire. I ruoli sono: vergineo da bimba (guai ai
pedofili nelle carceri napoletane); oggettuale-sessuale da giovane, dietro la
copertura sentimentale; possessivo-assolutistico da sposa; diabolico da suocera.
Il ruolo di madre, invece, conserva la sacralità deistica. Ma l'essenza sta nel
ruolo, e non nel soggetto, perché la stessa donna che sostiene i ruoli di madre
e di suocera contemporaneamente viene osservata da due ottiche contrapposte come
il dualismo bene-male.
In pratica tutto il meridione è sottoposto a questi canoni istintuali, ma più
a sud si va, più è intenso e connaturato il sentimento di essenza
deistico-verginale della donna, che prevale sugli altri ruoli...
Luigi Mari
da "Narrando sotto il Vesuvio"
I quartieri popolari con vecchie architetture spagnole, porte
e portelle, terrazze e balaustre, vasetti di garofani e rose. Il cuore del
proletariato torrese pre-post bellico. Il pidocchietto con Mammella nei miraggi
hollioodiani con i vari Ehston, Reves, Scott, Matur, Baker, Weissmüller; il
sentore acre e soffuso delle fatiscenze, carnacotta e fichi d'india, Feola
l'Acquaiola, in una Torre del Greco agro-dolce di un folklore ed una cultura
proletari quasi autarchici, a tratti fuori dalla storia, pur se dipanati da
canoni ancora imbevuti di viceregno e, talvolta, di logiche lazzaroniche; una
Torre del Greco, tuttavia, incancrenita da eruzioni, dopoguerre, e suggestioni
mistiche, in un contesto epocale lirico, destinato a soggiacere per estinguersi
sotto le sgherre pressioni di una involuzione etica, un edonismo devastante, un
pragmatismo ed un meccanicismo fuori d'ogni misura d'uomo.
Luigi Mari
Da Opere "Gradoni e canali"
Discorrere d'amore, oggi, in maniera declamatoria e fiorita,
dietro l'inevitabile apparenza messianica, risulta quanto meno frusto e
retorico, per non dire anacronistico. Non posso dire, retoricamente, che ormai
l'uomo è incapace di beneficiare delle virtù e dei valori di un tempo. Non
citerò la rancida massima: "Il migliore affare è quello di comprare
gli uomini per quello che valgono e venderli per quello che credono di
valere".
Intanto pure un bimbo di terza elementare sa che l'equilibrio del consorzio
umano rivacilla dopo corsi e ricorsi epocali perché sono venuti a mancare non
già i valori etico-religiosi in sé, ma i sostegni psichici che pure tra follie
di masse e battaglie cruente suggerivano al singolo la scelta di una presenza
terrena intellettivo-istintuale ora atarassica, per dirla con il tanto
partenopeo Epicuro, ora apotropaica, atta a scongiurare il negativo esistenziale
relativo all'interrogativo primario, inconscio, dell'uomo di carattere salvifico
post-mortale.
Al cospetto delle centinaia di foto antiche di questo sito ci sembrerà di
inspirare la fragranza di quintessenze orientali, per dirla ancora in chiave
retorica, dove compare qua e là un ciuffo d'erba, qualche viale alberato, un
brolo nei dedali, un verziere sullo sfondo di un androne.
Le strade palcoscenico si tramutano oggi in giungla urbana; gli interni,
sottomessi alle coercitive leggi di mercato; l'abbigliamento soggiogato dalle
convenzioni di un mercato pilotato da diaboliche strategie di marketing. Torre
del Greco, come tutte le città moderne, affoga nel concetto di benessere,
concretizzato pure da pressioni snobistiche, da smanie di sopraffazione. Le
vecchie foto sono una testimonianza inconfutabile rispetto alla rappresentazione
alfabetica di uno scrittore che, se pur in buona fede, soggiace sotto lo spirito
campanilistico, alterando certi aspetti, purgandone altri fino a mascherare
certe lordure.
Ma non basta; i contrasti interdomestici tra due generazioni conviventi, dovuti
ad un mutamento troppo rapido di ideologie e un crescendo di sovvertimenti
politico-sociali hanno causato persino nelle nostre famiglie di stampo
patriarcale vere e proprie idiosincrasie nei rapporti di gomito. A queste crisi
ha contribuito non poco un certo lassismo dei genitori, l'ingerenza protettiva
materna che offusca la figura del padre dietro ciechi cromosomici desideri di
riscatto di stampo femminista.
Ma dove sono finite le filastrocche risuonanti lungo le contrade barrocciabili,
dove qualche nonno, assiso su una pietra miliare farfugliava al nipote: "Cicci
bacco 'ncopp''a votta, chi 'o tira e chi 'o votta, chi 'o votta 'nda cantina,
Cicci bacco beve 'o vino"?
Dov'è finito il vociare logorroico, nelle due piazzette torresi, delle sode e
belle massaie, ignare dell'ossessione di scippi od estorsioni o del fantasma
interno dell'anoressia. E il gesticolare delle ragazze, chissà perché, sempre
copiose di forme, nel mercanteggiare quelle derrate che alimentavano in modo
genuino la loro opulenza fuori dal bisogno di cibarie sintetiche o composti di
laboratorio da assumere per via parenterale.
Mi urge uno stralcio retorico: sono andati per sempre i baci delle fanciulle,
che svaporavano la fragranza della clorofilla. Erano i tempi dei baci ad occhi
chiusi (oggi si dice come stupidi), per lasciare involare l'immaginazione: due
colombi cabravano sui crinali dei monti, indi veleggiavano indomiti, poi
andavano a posarsi leggeri sui prati intrisi di guazza primaverile nelle ville
vesuviane alle falde del Vesuvio, onde poter compiere, nei campi elisi, un atto
d' amore, giammai contaminati da glaciali introspezioni post-freudiane,
frigidizzanti e svirilizzanti.
Ma il benessere non è salute mentale, cioè amore. Il concetto dell'amore
assoluto e puro si riduce in una sola parola: Dio. Non ho detto cristianità,
buddismo, islamismo, ecc. queste sono dottrine, veicoli per condurre a Dio che
prevedono Dio-amore=immortalità. Demonio-male=assenza salvifica, quindi è un
amore che deriva spesso dal timore di soffrire. Dio non è ciò. Dio è amore e
basta, dentro e fuori di noi. Sempre.
Basta con l'analisi scelta, benvengano dialetti, solecismi, anacoluti, evviva
Gadda e Pasolini. Necessitano le nostre origini. Rinominiamo i nostri figli.
Basta con i Patty, Genny, Paul ed Omar. Concludo con una bella immagine di
Luciano De Crescenzo: Gli uomini sono angeli con una sola ala, non possono
volare che abbracciati".
Luigi Mari
Da: "Torre antica come messaggio d'Amore"
...Qualcosa che va al di là della suggestione o dell'ubbia.
Un recupero fisico vero, reale e non realistico, vivo e palpitante, come è vera
l'inesistenza di un confine tra la realtà e la fantasia anche quando si parla
di amore. Realtà e fantasia si fondono nel vero e nel metaforico e attingono i
lontani puerili candori e le purezze, oggi sotto il giogo di nostalgiche
reminiscenze, prigionieri di svigorimento ed inabilità per l'inevitabile
dissoluzione di benessere e letizia, destinati a sparire con la lucida,
scientifica, devastante consapevolezza del finire delle cose; e soprattutto del
nostro inevitabile finire.
Quindi un messaggio di recupero della materia utile ed attuale, che coinvolge e
sottintende, però, il recupero più nobile e sublime della psiche, della
felicità come salute mentale, come infinibilità dell'amore.
Amalia Vernacchia per certi aspetti ha realizzato in oggetti l'assunto del
famoso romanzo di Oscar Wild: "Il ritratto di Dorian Gray". L'eterno
dilemma della finibilità che può non finire se lo vogliamo?...
Luigi Mari
Da Artisti "Amalia Vernacchia"
Una sorta di autodifesa senza note caustiche, priva di toni
polemici non sarebbe tale; non sarebbe democrazia. Non trovando altro appiglio
certa intellighentzia, insomma gli addetti ai lavori, criticano la grafica
elementare e variopinta di questo sito, (perché dei contenuti si guardano bene
dal parlarne).
Certo, la nostra è una società di facciata, di conformismo, ma in Torreomnia
la pagnotta non c'entra; prevale sostenere la libertà, almeno lo sforzo di
farlo.
I criticoni, ossessionati dalla loro incapacità di costruire contenuti, sono
conformisti fradici e sostenitori del luk attuale, portabandiera dell'immagine
impeccabile e conforme: poi non sanno aprir bocca. Per loro creare
significa somigliare. Succubi della filosofia pappagallesca rivolta solo
ad intimidire e prevaricare con una sorta di nuovo insignificante latinorum,
penalizzando infine, tra l'altro, i poco iniziati che impiegheranno anni prima
di imparate a scovare i link mirmicolanti da microscopio presenti in quei rebus
a cui somigliano certe pagine web più quotate.
E' lo scotto delle dottrine acquisite, delle nozioni da esoterismo mestierante,
della seriosità e della pseudo professionalità. Diceva Galilei: La differenza
che passa tra il filosofo e il laureato in filiosofia è quella che intercorre
tra l'artista che crea il proprio quadro e il pittore che lo copia.
Luigi Mari
Da "Considerazioni" in questo sito
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