Albergo dei
Poveri
Per gentile concessione
dell'autore
Addò jate, aspettate nu' mumento! 'A Superiora ve vo'!! Si
voltarono entrambi a guardare interrogativi la "madre
portinaia" che da dietro li aveva rincorsi con il suo vocione nel
mentre stavano per uscire in quel pomeriggio di sabato per andare al
cinema-teatro Duemila, lì alla Ferrovia.
Tonino e Ppoppò non fecero in tempo nemmeno ad aprir bocca che quella
già era sparita in una stanza laterale del lunghissimo corridoio senza
dare alcuna spiegazione. Non restava loro che presentarsi per udire i
desiderata per poi scappare a sedersi nelle prime file e godersi quello
spettacolo teatrale a cui tenevano tanto e di cui avevano sognato per
tutta la settimana. " Va trova che bbo’ a nuie 'a Superiora
a cchest 'ora!" fece Ppoppò dandosi una ravviata ai capelli
impomatati di Tricofilina.
Avevano indossato i panni buoni della domenica ed usato tanto lucido per
le scarpe che al loro passaggio lasciavano dietro una persistente scia
dell' acre odore. Tonino dei due era il più basso però in compenso la
sua fronte era alta, con l'attaccatura dei capelli molto al di sopra di
quella normale: alla Mao Tse Tung per capirci. Il viso era
caratterizzato da un naso grosso, aquilino, che lo faceva somigliare a
volte ad un rapace quando ti guardava con i suoi occhi
mobilissimi piccoli e neri, ornati da cespugliose sopracciglia, la bocca
regolare e così il volto magro e asciutto come tutta la persona.
L'espressione era sempre pensosa e seria come a celare un antico dolore
pur essendo un giovanissimo: sedici anni appena. Ppoppò era più lungo,
smilzo con le gambe un po' arcuate, che gli davano un'aria da
cavallerizzo vecchio west.
Anche lui era fornito di un buon naso, non aquilino, ma grande e
sporgente. Un nasone insomma che dava al volto allungato una fisionomia
che chi lo vedeva una volta difficilmente lo avrebbe dimenticato. Lo
sguardo era leggermente assente a confronto di quello di Tonino. La sua
era una personalità mite, delicata, equina se vogliamo, nel senso che
Tonino, come altre persone, potevano senza sforzo eccessivo fargli
compiere azioni o trovato disponibile ed ubbidiente in ogni occasione.
I due formavano un binomio affiatato e solidale anche se non mancavano
in alcuni momenti delle tensioni che non sfociavano però mai in liti.
Madre Luigia li accolse con un: "Lo so, lo so, cari figli che
stavate per uscire, ma vi devo chiedere un grosso favore: dovete
aspettare! ! Credo che si tratti di poco momento " e
abbassando il tono della voce riprese a dire: - "Donna Concetta
sta morendo nel suo lettino al numero venti. Don Nicolino mezz'ora fa le
ha impartito l’Estrema Unzione e mi ha detto che era questione di
minuti, come pure il dottor Scaturchio. Per questo dovrete preparare la
lettiga e trasportare, quando sarà il momento, la salma in chiesa,
nella cappella, ma voi già sapete quello che dovete fare...."
"Allora non è morta ancora?" - domandò preoccupato
Tonino. "No, non è morta ancora. Come vi ho detto è questione
di pochi minuti. Intanto andate a prendere la lettiga ché quando
salite la poveretta ci avrà già lasciato! Andate, andate e dopo
potrete uscire e ritirarvi più tardi che oggi è sabato."
Questo disse Madre Luigia, stando con le braccia conserte, seduta
dietro la scrivania già grande ma che lo sembrava molto di più in
confronto a lei piccolina. I suoi piedi a stento arrivavano ad
appoggiarsi ad un grosso pezzo di legno massiccio postovi sotto. Ella li
guardava con l’aria di chi non ammette repliche mentre i due,
silenziosi, se ne uscivano a marcia indietro ché di lei avevano, più
che soggezione, un affettuoso rispetto essendo una persona giusta e
amorevole.
La sua materna sollecitudine entrambi avevano potuto sentirla da sempre
specie nella prima infanzia quando poveri orfanelli furono portati in
quel luogo privati del calore di una vera famiglia. Madre Luigia per
Ppoppò e per Tonino era una vera mamma. Un sorriso perenne le abbelliva
il volto proporzionato e incorniciato dalla candida gorgiera a sua volta
sormontata dalla nera macchia dei veli della tonaca. Appeso ad
un'argentea catenella le cadeva sul petto un grosso Crocifisso d’ottone,
lucente per le continue sue carezze. Aveva mani piccole ma belle e pure
se maculate dai cosiddetti "fiori di cimitero", data l'età
avanzata, erano ancora mobilissime e testimoniavano di una personalità
forte e volitiva.
Quello che affascinava di questa donna minuscola erano gli occhi di un
colore chiaro, indeciso tra il verde ed il celeste.
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Vi si poteva leggere
come in un libro le parole: umanità, comprensione, pazienza, amore
verso il prossimo specie quello più indifeso come l’anziano ed il
bambino. Ppoppò e Tonino a labbra serrate, così con i vestiti
della domenica, scesero giù nel deposito situato a lato della porta d’ingresso.
Qui a manese al suo posto era appoggiato su due grezzi cavalletti d’abete
l’oggetto del loro interesse.
Da una finestrella in alto tenuta sempre aperta e difesa da spessa
inferriata, penetrava a scacchi la luce dall’esterno che si aggiungeva
ora a quella della lampadina accesa posta anch’essa molto in alto,
giallastra, fioca. L’ambiente era stato ricavato da una stanza più
grande. Per questo dava sempre a chi vi entrava una sensazione di disagio,
tipico di quando ci si aspetta di vedere una cosa e se ne presenta agli
occhi un’altra. L’antica lettiga di legno dorato, dalle dimensioni
più grandi di una media cassa da morto, brillava nelle sue dorature,
raggiunte da duplice fonte luminosa. Ai suoi quattro spigoli erano
scolpite delle faci capovolte a significare che la vita era finita. Sui
due lati il monogramma della parola greca Xpistòs che il popolo crede che
stia per la parola latina Pax.
La fattura dell’intaglio era veramente pregiata e trasmetteva ancora ai
nostri tempi la concezione antica che gli avi avevano della morte e della
dignità che sapevano attribuirle anche con la pompa degli oggetti ad essa
legati. Ai muri di quella specie di deposito erano addossati ancora e
vecchi lumi a bastone, di bronzo brunito che non erano più usati da
tempo, e neri, lignei crocifissi privi della scultura del Cristo in
diverse misure ed ancora svariati oggetti per apparare solenni
funerali.
Di tutto quell’armamentario solo la barella era rimasta in uso. Essa era
ben conosciuta da tutti in quel luogo ché spesso si poteva vederla venire
vuota e tornarsene con l’ospite di turno. Il suo interno era tappezzato
da un velluto rosso scuro in parte liso e fermato ai bordi da una continua
frangia dorata, qua e là anch’essa staccata e con le teste dei chiodi
in bell’evidenza. Quell’oggetto non era impolverato come gli altri che
pure erano accatastati tutt’intorno. Si vedeva bene che assai spesso era
maneggiato da quelle giovani mani. La sollevarono con decisione, avendola
afferrata con i maniglioni d’ottone finemente lavorato posti a capo e a
piedi e s’incamminarono così attrezzati lungo l’arioso scalone.
Non mancò nell’occasione un sospiro o qualche sguardo tra il
meravigliato ed il rassegnato. Partivano da lente sagome d’anziani che
si attardavano lungo lo scalone e i suoi ballatoi. Arrivati davanti alla
camerata ove donna Concetta nel suo lettino, sola, sembrava come assopita,
appoggiarono ad una parete la lettiga e rimasero come in attesa. L’orologio
della vicina chiesa dell’Immacolata, che essi potevano vedere dall’ampio
verone, batteva intanto i quarti d’ora. Il lungo stanzone dall’alto
soffitto si apriva subito dopo un’ampia stanza di servizio. Una lignea
pedana sormontata da statua di Madonna con Bambino con fioca lampadina
accesa e fiori alla base era il suo arredamento. Qui i due avevano riposto
la lettiga e Ppoppò fu mandato da Tonino a vedere donna Concetta a che
stava.
La stanza dormitorio, lunga trenta e larga dieci metri, comprendeva una
ventina di lettini allineati ai lati e con ampi spazio al centro, ove
erano posti tre tavoli forniti di sei sedie ciascuno. Tra un lettino e l’altro
dei bassi comodini di legno scuro in stile moderno. I lettini erano tutti
in ferro verniciato bianco con testiera leggermente più alta. Donna
Concetta era distesa nel suo lettuccio in penombra. Molto distante da lei
riposava una sua compagna di cui si sentivano provenire dalla
semioscurità stizzosi colpi di tosse in cadenza quasi regolare a rompere
un silenzio greve di un non meglio identificato disinfettante che mal
celava quel tipico odore d’ umanità anziana costretta a vivere in un
unico, se pur grande e pulito, ambiente e molto spesso sofferente per i
fastidiosi malanni delle età avanzate.
La sua persona era stata sempre molto magra ed ora era diventata per
l'età piccola e fragile. Donna Concetta, dopo una non lunga sofferenza
fisica, contrapposta invece ad una vita costellata di privazioni e
triboli, sopportati con una forza insospettabile in un corpo delicato,
stava ora concludendo il suo viaggio terreno in una malinconica solitudine
che però aveva in sé una cristiana, eroica, dignitosa valenza.
Ppoppò si era avvicinato lentamente al lettino e cercava di capire se
donna Concetta era già morta. Una bianca scolla le fasciava la
piccola testa e le copriva la fronte febbricitante quasi a nasconderle gli
occhi a mo’ di visiera. Due ciuffi di capelli grigi ed in disordine
pendevano lungo le guance infossate. La loro magrezza dava maggiore
risalto ad un naso ormai affilatissimo di cui la punta e le buie narici
erano ciò che più colpiva. La bocca piccola e priva di denti spalancata
come un buco rotondo evidenziava una lingua esangue, stanca e rinsecchita.
Il suo aspetto era pietoso e grottesco allo stesso tempo. L’insulto
estremo è quasi sempre accompagnato da simile epifania. Ognuno sembra
ripercorrere la via Dolorosa, la via della Croce. Donna Concetta in quel
momento somigliava all’Ecce Homo.
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