Francesco Raimondo

pag. 2

Confuso per l’immobilità del corpo e del viso, Ppoppò si era avvicinato ancora di più al cadavere. Rimase per qualche tempo in osservazione, movendo la testa come fanno i cani quando non capiscono un segnale del padrone o si trovano ad udire qualche suono sconosciuto.
Alla fine -è’ morta- pensò e lentamente, con pudore, fece per indietreggiare sempre guardando donna Concetta. L’avambraccio destro, che era rimasto immobile lungo il corpo della donna, all’improvviso, prese a sollevarsi. La minuscola, ossuta mano della moribonda, chiusa ma con l’indice in evidenza, sembrava indicare proprio lui! Ppoppò si fermò con gli occhi dilatati a guardare. Questa, facendo dei movimenti automatici, si portò alla fronte, scivolò lungo il viso contratto e ritornò poi, perfettamente, nell’identica posizione. Un veloce dietrofront e Ppoppò si ritrovò affianco a Tonino che fuori lo aspettava con una odorosa Camel tra le labbra: Ma chella, donna Cuncetta nun è morta! Fece come in un grido smorzato. Overo? -Eh! overo fece Ppoppò. Mo’ vaco a vede’ io. Anche per Tonino fu la stessa sorpresa. Di nuovo la mano della povera donna Concetta parve indicare qualcuno o qualcosa per poi ricadere al suo posto. Uscirono veloci dal camerone e si guardarono come ad interrogarsi a vicenda. Intanto l’orologio dell’attigua chiesa faceva sentire la sua voce. So’ già ‘e cinque, ’o primm’ spettacolo sta’ ‘e sette. E ch’avimm’ ‘a fa? Aspettammo! Tie’ fumme pure tu. E Tonino mollò un’americana a Ppoppò che solo da poco era stato da lui iniziato al fumo. Si affacciarono ad una finestra che guardava all’interno del gran complesso e si gustarono un rosso tramonto napoletano tra bluastre spire di fumo.
Alle cinque e un quarto i due stavano ancora in attesa. Ppoppò, seduto sull’ultimo gradino dello scalone, era come assorto in chissà quali pensieri, mentre Tonino non faceva altro che andare avanti ed indietro tra la statua della Madonna e la finestra da cui provenivano i tocchi dell’orologio e dalla quale si vedevano calare impercettibilmente le ombre della sera. A turno, fumando altre sigarette, facevano poi la spola tra il lettino della moribonda e la finestra a guardare e a sentire l’orologio.
Tonino sembrava un marito impaziente che in anticamera attendeva la notizia di essere diventato padre per la prima volta. Sei furono i colpi cadenzati che la punta del piede destro di Tonino batté sul pavimento del ballatoio, sei gli scuotimenti della testa, sei i volteggi di entrambe le mani verso l’alto soffitto. Redivivo, bronzeo, fauno pompeiano: seh! Seh! Sibilò tra i denti mentre l’ultimo rintocco di campana indicava le ore sei. Dopo aver come accennato ai primi passi di una classica tarantella Tonino si era fermato di botto, quindi rivolto a Ppoppò che lo guardava ammirato fece: Aiza! Aiza! Mo’ faccio comme dico io. S’ inoltrarono così nel camerone con la lettiga. Ppoppò stava avanti ed era quasi sospinto da Tonino. Vai, vai, mettimmola ccà. e la poggiarono a terra affianco al lettuccio mentre loro vi si piazzarono ai piedi come i santi Cosma e Damiano delle figurelle. Tonino con timorosa sollecitudine prese a chiamare sottovoce:‘onna Cunce’….’onna Cunce’… Come se avesse sentito il richiamo donna Concetta aprì gli occhi, che si accesero sotto l’orlo della scolla e sembrarono fissare per un tempo i due giovani.
Quello sguardo era come se li attraversasse, come se i due fossero trasparenti. Entrambi, infatti, si voltarono di scatto a guardare dietro di loro ma non videro nessuno, se non il buio della stanza. Donna Concetta mosse la testa in avanti e schiuse le labbra come per accennare un sorriso. No, non vedeva né Tonino né Ppoppò, lì ai piedi del letto. Né avrebbe potuto perché ultimamente la sua vista si era abbassata di molto per via del diabete. Ella invece vide per prima, con chiarezza, due persone che la guardavano ed entrambe le sorridevano felici. Erano una donna e un giovane con dei neri baffetti. Non ne distingueva i vestiti che emanavano come una luce di un tenue colore azzurrognolo. I volti però erano chiari, nitidi.
Appena li ebbe riconosciuti il suo corpo, tutto il suo essere ebbe come un sussulto. Fu come se esplodesse di gioia. Non sentì più alcun dolore fisico; di quelli terribili che l’avevano afflitta fino a pochi istanti prima.

Sentì come un fortissimo rumore, un boato che, come avviene nei temporali quando il tuono sembra rimbalzare tra le nuvole si allontanò lasciando il posto ad un silenzio pieno di pace. La donna era sua madre, mamma Virginia che teneva accanto a sé Salvatore, il suo Tatore.
Com’erano belli! Molto, ma molto diversi da quando li aveva visti per l’ultima volta. Della mamma aveva ricordato per anni il volto impolverato e gonfio di quando l’avevano dopo giorni dissepolta dalle macerie della loro casa bombardata lì nei pressi della piazza del Carmine. Ora però non mostrava i settantacinque anni di quando era morta. Era il suo il volto della giovinezza, di quando era nel fiore della vita, ma con qualcosa di diverso nell’aspetto.
Avevano quei volti una luminosità che avrebbe abbagliato ma alla quale si era da subito abituata. Ineffabile la loro gioia. Muta, ma allo stesso tempo rumorosissima. Il suo Tore era lì che la guardava e le sorrideva vicinissimo alla nonna. L’ultima volta che donna Concetta aveva visto il figlio era stato quando, tra la folla del porto, con le lacrime agli occhi, l’aveva salutato sul barcarizzo di una nave che partiva per l’Africa. Bersagliere, Totore era caduto poi nel deserto di El Alamein. In quella battaglia dove era mancata la Fortuna ma non l’Onore. Con la pensione di guerra aveva tirato a campare fino a quando, sola e malata dovette lasciare il suo basso presso la porta di San Gennaro. Qui aveva prodotto e venduto per anni sciosciamosche, cappelli di carta di varie fogge e maschere per i Carnevale e diversi, colorati manufatti che facevano la gioia dei piccoli e dei grandi durante le feste di Piedigrotta.
Come in un film, in un attimo, in meno di un attimo, aveva rivisto tutta la sua vita. Aveva sorriso e pianto; avuto paura e si era sentita coraggiosa; aveva pregato ed inveito; aveva amato ed odiato in un solo attimo fino a quando le tre luminose persone accanto al letto di morte non le fecero un segno con le mani. Un’altra persona sconosciuta ma che lei sentiva familiare allo stesso modo la guardava con infinita benevolenza. Per anni l’aveva custodita, aiutata, confortata, sostenuta. Ora la sua missione era finita.
A quel segno lei si alzò, ma i suoi piedi non toccarono il pavimento anzi improvvisamente, come da un’altezza sempre crescente, vide un lettino dove giaceva un’anziana col capo fasciato e due ragazzi che ai suoi piedi la fissavano. Vide pure la lettiga lì accanto. Stettero per qualche tempo lei, il figlio Salvatore, la mamma Virginia e lo sconosciuto come librati nell’aria e seguirono tutte le fasi successive fino a quando i due ragazzi non ebbero deposto il suo corpo inanimato tra quel rosso velluto. In un lampo traversarono la materia degli spessi muri, gli ambienti, i tetti dell’immenso edificio carolino che si andava rimpicciolendo sempre più.
Era sera ormai ma la città per loro era come illuminata da una luce d’oro, d’un’alba o di un tramonto. Altri globi lucenti sorgevano intanto improvvisi da quel mare di edifici, città Fedelissima di Napoli, e si innalzavano veloci nel cielo. Donna Concetta iniziava così il suo viaggio senza fine nella luce della Verità. Tonino e Ppoppò l’avevano guardata stupiti mentre lei reclinava la testa verso il lato della lettiga che faceva bella mostra di sé e sembrò fissarla. Aveva poi sbarrato gli occhi ed emesso un sospiro trasformatosi subito in rantolo. Era morta! Dopo un attimo d’incertezza i due realizzarono la cosa perché, simultaneamente, si segnarono con rispetto e con movimenti già sperimentati procedettero immediatamente a sollevare dal letto il corpo senza vita e lo adagiarono con delicatezza nella bara, facendo bene attenzione a ricomporla. Le chiusero le palpebre e le incrociarono al petto le braccia com’era stato loro insegnato. Stavano per uscire dalla stanza con il mesto carico quando si presentarono madre Luigia e due consorelle.
Nella barella tenuta ad altezza di bacino donna Concetta sembrava sorridere mentre veniva trasportata in funebre corteo lungo lo scalone con le tre suore che facevano sentire le loro preghiere e con gli anziani più in buone condizioni che vi si accodavano commossi. L’orologio della chiesa dell’Immacolata batteva le sette di quel sabato sera quando Tonino e Ppoppò, trafelati ma contenti, si sedettero, buio in sala, nelle prime file del cinema-teatro Duemila mentre il sipario si levava al suono di un’allegra musichetta.