Confuso per l’immobilità del corpo e del viso,
Ppoppò si era avvicinato ancora di più al cadavere. Rimase per
qualche tempo in osservazione, movendo la testa come fanno i cani quando
non capiscono un segnale del padrone o si trovano ad udire qualche suono
sconosciuto.
Alla fine -è’ morta- pensò e lentamente, con pudore, fece per
indietreggiare sempre guardando donna Concetta. L’avambraccio destro,
che era rimasto immobile lungo il corpo della donna, all’improvviso,
prese a sollevarsi. La minuscola, ossuta mano della moribonda, chiusa ma
con l’indice in evidenza, sembrava indicare proprio lui! Ppoppò si
fermò con gli occhi dilatati a guardare. Questa, facendo dei movimenti
automatici, si portò alla fronte, scivolò lungo il viso contratto e
ritornò poi, perfettamente, nell’identica posizione. Un veloce
dietrofront e Ppoppò si ritrovò affianco a Tonino che fuori lo
aspettava con una odorosa Camel tra le labbra: Ma chella, donna
Cuncetta nun è morta! Fece come in un grido smorzato. Overo?
-Eh! overo fece Ppoppò. Mo’ vaco a vede’ io. Anche per
Tonino fu la stessa sorpresa. Di nuovo la mano della povera donna
Concetta parve indicare qualcuno o qualcosa per poi ricadere al suo
posto. Uscirono veloci dal camerone e si guardarono come ad interrogarsi
a vicenda. Intanto l’orologio dell’attigua chiesa faceva sentire la
sua voce. So’ già ‘e cinque, ’o primm’ spettacolo sta’ ‘e
sette. E ch’avimm’ ‘a fa? Aspettammo! Tie’ fumme pure tu. E
Tonino mollò un’americana a Ppoppò che solo da poco era stato da lui
iniziato al fumo. Si affacciarono ad una finestra che guardava all’interno
del gran complesso e si gustarono un rosso tramonto napoletano tra
bluastre spire di fumo.
Alle cinque e un quarto i due stavano ancora in attesa. Ppoppò, seduto
sull’ultimo gradino dello scalone, era come assorto in chissà quali
pensieri, mentre Tonino non faceva altro che andare avanti ed indietro
tra la statua della Madonna e la finestra da cui provenivano i tocchi
dell’orologio e dalla quale si vedevano calare impercettibilmente le
ombre della sera. A turno, fumando altre sigarette, facevano poi la
spola tra il lettino della moribonda e la finestra a guardare e a
sentire l’orologio.
Tonino sembrava un marito impaziente che in anticamera attendeva la
notizia di essere diventato padre per la prima volta. Sei furono i colpi
cadenzati che la punta del piede destro di Tonino batté sul pavimento
del ballatoio, sei gli scuotimenti della testa, sei i volteggi di
entrambe le mani verso l’alto soffitto. Redivivo, bronzeo, fauno
pompeiano: seh! Seh! Sibilò tra i denti mentre l’ultimo
rintocco di campana indicava le ore sei. Dopo aver come accennato ai
primi passi di una classica tarantella Tonino si era fermato di botto,
quindi rivolto a Ppoppò che lo guardava ammirato fece: Aiza! Aiza!
Mo’ faccio comme dico io. S’ inoltrarono così nel camerone
con la lettiga. Ppoppò stava avanti ed era quasi sospinto da Tonino. Vai,
vai, mettimmola ccà. e la poggiarono a terra affianco al lettuccio
mentre loro vi si piazzarono ai piedi come i santi Cosma e Damiano delle
figurelle. Tonino con timorosa sollecitudine prese a chiamare
sottovoce:‘onna Cunce’….’onna Cunce’… Come se avesse
sentito il richiamo donna Concetta aprì gli occhi, che si accesero
sotto l’orlo della scolla e sembrarono fissare per un tempo i
due giovani.
Quello sguardo era come se li attraversasse, come se i due fossero
trasparenti. Entrambi, infatti, si voltarono di scatto a guardare dietro
di loro ma non videro nessuno, se non il buio della stanza. Donna
Concetta mosse la testa in avanti e schiuse le labbra come per accennare
un sorriso. No, non vedeva né Tonino né Ppoppò, lì ai piedi del
letto. Né avrebbe potuto perché ultimamente la sua vista si era
abbassata di molto per via del diabete. Ella invece vide per prima, con
chiarezza, due persone che la guardavano ed entrambe le sorridevano
felici. Erano una donna e un giovane con dei neri baffetti. Non ne
distingueva i vestiti che emanavano come una luce di un tenue colore
azzurrognolo. I volti però erano chiari, nitidi.
Appena li ebbe riconosciuti il suo corpo, tutto il suo essere ebbe come
un sussulto. Fu come se esplodesse di gioia. Non sentì più alcun
dolore fisico; di quelli terribili che l’avevano afflitta fino a pochi
istanti prima.
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Sentì come un fortissimo rumore, un boato che, come
avviene nei temporali quando il tuono sembra rimbalzare tra le nuvole si
allontanò lasciando il posto ad un silenzio pieno di pace. La donna era
sua madre, mamma Virginia che teneva accanto a sé Salvatore, il suo
Tatore.
Com’erano belli! Molto, ma molto diversi da quando li aveva visti per l’ultima
volta. Della mamma aveva ricordato per anni il volto impolverato e gonfio
di quando l’avevano dopo giorni dissepolta dalle macerie della loro casa
bombardata lì nei pressi della piazza del Carmine. Ora però non mostrava
i settantacinque anni di quando era morta. Era il suo il volto della
giovinezza, di quando era nel fiore della vita, ma con qualcosa di diverso
nell’aspetto.
Avevano quei volti una luminosità che avrebbe abbagliato ma alla quale si
era da subito abituata. Ineffabile la loro gioia. Muta, ma allo stesso
tempo rumorosissima. Il suo Tore era lì che la guardava e le sorrideva
vicinissimo alla nonna. L’ultima volta che donna Concetta aveva visto il
figlio era stato quando, tra la folla del porto, con le lacrime agli
occhi, l’aveva salutato sul barcarizzo di una nave che partiva per l’Africa.
Bersagliere, Totore era caduto poi nel deserto di El Alamein. In quella
battaglia dove era mancata la Fortuna ma non l’Onore. Con la pensione di
guerra aveva tirato a campare fino a quando, sola e malata dovette
lasciare il suo basso presso la porta di San Gennaro. Qui aveva prodotto e
venduto per anni sciosciamosche, cappelli di carta di varie fogge e
maschere per i Carnevale e diversi, colorati manufatti che facevano la
gioia dei piccoli e dei grandi durante le feste di Piedigrotta.
Come in un film, in un attimo, in meno di un attimo, aveva rivisto tutta
la sua vita. Aveva sorriso e pianto; avuto paura e si era sentita
coraggiosa; aveva pregato ed inveito; aveva amato ed odiato in un solo
attimo fino a quando le tre luminose persone accanto al letto di morte non
le fecero un segno con le mani. Un’altra persona sconosciuta ma che lei
sentiva familiare allo stesso modo la guardava con infinita benevolenza.
Per anni l’aveva custodita, aiutata, confortata, sostenuta. Ora la sua
missione era finita.
A quel segno lei si alzò, ma i suoi piedi non toccarono il pavimento anzi
improvvisamente, come da un’altezza sempre crescente, vide un lettino
dove giaceva un’anziana col capo fasciato e due ragazzi che ai suoi
piedi la fissavano. Vide pure la lettiga lì accanto. Stettero per qualche
tempo lei, il figlio Salvatore, la mamma Virginia e lo sconosciuto come
librati nell’aria e seguirono tutte le fasi successive fino a quando i
due ragazzi non ebbero deposto il suo corpo inanimato tra quel rosso
velluto. In un lampo traversarono la materia degli spessi muri, gli
ambienti, i tetti dell’immenso edificio carolino che si andava
rimpicciolendo sempre più.
Era sera ormai ma la città per loro era come illuminata da una luce d’oro,
d’un’alba o di un tramonto. Altri globi lucenti sorgevano intanto
improvvisi da quel mare di edifici, città Fedelissima di Napoli, e si
innalzavano veloci nel cielo. Donna Concetta iniziava così il suo viaggio
senza fine nella luce della Verità. Tonino e Ppoppò l’avevano guardata
stupiti mentre lei reclinava la testa verso il lato della lettiga che
faceva bella mostra di sé e sembrò fissarla. Aveva poi sbarrato gli
occhi ed emesso un sospiro trasformatosi subito in rantolo. Era morta!
Dopo un attimo d’incertezza i due realizzarono la cosa perché,
simultaneamente, si segnarono con rispetto e con movimenti già
sperimentati procedettero immediatamente a sollevare dal letto il corpo
senza vita e lo adagiarono con delicatezza nella bara, facendo bene
attenzione a ricomporla. Le chiusero le palpebre e le incrociarono al
petto le braccia com’era stato loro insegnato. Stavano per uscire dalla
stanza con il mesto carico quando si presentarono madre Luigia e due
consorelle.
Nella barella tenuta ad altezza di bacino donna Concetta sembrava
sorridere mentre veniva trasportata in funebre corteo lungo lo scalone con
le tre suore che facevano sentire le loro preghiere e con gli anziani più
in buone condizioni che vi si accodavano commossi. L’orologio della
chiesa dell’Immacolata batteva le sette di quel sabato sera quando
Tonino e Ppoppò, trafelati ma contenti, si sedettero, buio in sala, nelle
prime file del cinema-teatro Duemila mentre il sipario si levava al suono
di un’allegra musichetta.
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