Introduzione
Peppe D'Urzo è un autore prolifico e singolare. Le sue ricerche sono
incredibilmente analitiche, di introvabile valore didattico. I lavori che
vengon fuori sono "ritratti" dove non sfugge nemmeno il
particolare più minuto. Non solo. Mentre una foto ritrae tutto ciò che
è visibile, presente, Peppe allarga ad estuario il suo pensiero ora sulla
località, adesso sul personaggio, sempre nel tepore della memoria, in
maniera tale da rendere inevitabile quel sapore poetico presente in tutte
le reminiscenze. La Torre del Greco di Peppe è Durzo stesso! Come diceva
di se Marotta: "la Napoli che racconto sono io, perché solo di me so
qualcosa, se lo so".
Gli scritti di Peppe D'Urzo non ostentano analisi scelta, egli non adopera
schiccherature mestieranti, dialettiche accattivanti per soggiogare e
intimidire il lettore, sacrificando la notizia, il contenuto. Il testo, di
primo acchito, va appena oltre la dimensione dell'annotazione, della
cronaca, della storiografia lineare, ma la prosa è certamente
straordinariamente ancorata al tessuto connettivo dei precordi, delle
intense emozioni di un umanistico, fidente, franco passato, quello dei
nostri nonni, lontani dai covoni bancari, dal pragmatismo e dall'asetticità.
I suoi racconti, dunque, i suoi "graffiti", le sue interviste
celate e mimetizzate nel componimento aperto e spontaneo fuggono a tutti i
costi l'artificiosità, ma scatenano l'emozione come le vecchie lettere
degli emigranti intrise di quintessenze.
Un secondo aspetto, non meno prezioso, che quasi passa inosservato perché
scontato persino per l'autore, è quello mimetico dei dialoghi,
apparentemente inesistenti; ma soprattutto emerge la certosina fatica
glottologica che spesso si estende sino alla filologia, poiché la
terminologia torrese antica vastissima e spesso sconosciuta, perché
vetusta, è ricercata minuziosamente non solo nell'etimologia, ma nella
storicità della coniatura.
Quasi
un richiamo alla sperimentazione gaddo-pasoliniana del dopoguerra. Testi,
quelli del D'Urzo, che, apparentemente lineari e illetterati nel senso
artistico, (comunque privi di artificiosità di mestiere, con buona pace
di Croce o di Flora) , si rivelano uno studio storico-aneddotico
introvabile in tutti i suoi predecessori torresi.
Se si affonda nel substrato, intanto, si raccoglie, comunque, anche una
prosa dove contenuti e forma
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PEPPE
D'URZO
STORICO E RICERCATORE
TORRESE
sfiorano, sforano e ritornano in un candore
narrativo, per così dire lirico, ispirato, ideale, fantasioso, anche se a
tratti tremendamente crudo di realtà materiale e biologica, con eventi
anche tragici: lutti, angosce, fusi immediatamente prima e dopo con
esultanze, letizie, atti d'amore. Ma come in ogni assimilazione letteraria
molto dipende anche dalla soggettività del lettore, dal suo gusto, dalla
sua preparazione culturale, dalla sua condizione emotiva, sociale,
anagrafica infine.
E sono, senza dubbio, proprio atti d'amore dedicati alla sua cara Torre
del Greco che Peppe d'Urzo compie, quasi religiosamente, nell'emozione più
intensa e recondita, ogni volta che mette penna su carta. Ed egli ama
Torre ogni ora, ogni giorno, da sempre; da quando, pargolo, d'estate,
sentiva il tepore del nostro sole generoso sotto i plantari sullo scoglio
francese, con le nari narcotizzate dagli aromi delle pietanze materne
traboccanti d'amore e di benevolenza.
Solo un grande amore per le proprie mura, per la propria gente, giustifica
la fatica immane che compie da anni, instancabile, insaziabile di storie e
di fatti, di eventi e tradizioni.
Grazie, Peppe D'Urzo, grazie di amare così tanto la nostra città. Ti
voglio bene. Spesso, quando ti leggo, mi fai quasi "ridere sotto gli
occhi...".
Luigi
Mari
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