Ricordi del bere e mangiare di un torrese     Pag. 24

-MACC-

maccaron(e):

La pasta per antonomasia. 

Maccaruni i ziti, quelli che si spezzavano con un abile movimento del mignolo e che avevano la parte centrale ammaccata per essere stati stesi sulle canne ad asciugare. Quella parte ammaccata finiva nella munuzzaglia, nella pasta  mmiscata per pasta e fasuli.

  "Mangiamaccheroni" furono detti i napoletani nel settecento, quando l'invenzione del torchio per la trafila della pasta, lo nciegno, mutò sostanzialmente la loro dieta alimentare. 

Belle, janche

vranche, a branche

da lo nciegno quann'ascite:

s'a no panno

spase v'hanno,

la via lattea me parite.

Si sospise

veove appise

a le canne ...

(Sgruttendio. La Tiorba a Taccone).

Da mangiafoglia a mangiamaccheroni, adeguandosi alle necessità di una popolazione troppo cresciuta. Dai 75.000 abitanti del Quattrocento, ai 450.000. abitanti a metà del Seicento, nonostante le decimazioni delle pestilenze del 1630 e 1656. Ormai era diventato difficile soddisfare la richiesta cittadina di massa alimentare e approviggionare la città con la "foglia", alimento ingombrante e poco sostanzioso. A questo potevano sopperire i maccaruni, con lo loro prerogativa di massa solida capace di égnere a panza.

... se ne magnaie schitto duie voccune,

ca si cchiù passe, abbottano la panza!

(G. C. Cortese. Viaggio di Parnaso).

.... lo vierno 'nchiuse, co stanza stofata

s'abbottano di vino e maccarune,  

 (Gabriele Fasano. Lo Tasso Napoletano).

I napoletani da "mangiafoglia" diventarono "mangiamaccheroni" ma prima di loro i "mangiamaccheroni" erano stati i siciliani che già conoscevano la pasta secca per averne appreso la tecnica dagli arabi. 

Oh, te stai loco? e che pienzi parlare, 

sicilianello, con quarche pezziente

pari tuo? Va, va, manciamaccaroni!

(Giambattista Cini. La vedova).

Il termine "maccarone" denota la provenienza dal latino "maccare", ammaccare. Inizialmente questa voce era riferita a pasta ammaccata, pasta tipo gnocchi. In seguito fu riferita alla pasta secca.  E pasta secca era quella descritta nell'atto notarile del 4 febbraio 1279 in Genova "bariscella plena de macaronis", forse la più antica testimonianza sulla pasta lunga essiccata. Già nel secolo successivo i genovesi imbarcavano dei "maestri lasagnari" il che ci fa pensare che la pasta in quel di Genova entrasse già nella loro dieta alimentare comune. 

A Napoli i maccaruni restano per secoli alimento pregiato per ricche abbuffate. 

“… in una contrada che si chiamava Bengodi…

 eravi una montagna tutta di formaggio parmigiano grattugiato, sopra la quale stavan genti che niun altra cosa facevano che far maccheroni …”.

(G. Boccaccio. Decamerone, VIII giornata, Terza novella.

... pedeta de putana    et maccharoni

con dui o tre caponi    sotterrati.

(Iacopo Sannazzaro, -1457-1530-. Lo gliommero Napoletano).

Finché i maccheroni non assunsero il ruolo di alimento prioritario dei napoletani, cioè fino alla metà del 1600, erano riservati alla gastronomia dei ricchi come piatti dolci, da mangiare con zuccaro, cannella e mele

E per comodo delle lettrici vaghe di prepararli alla cinquecentista, riferirò un brano di messer Anonimo d’Utopia, vulgo Ortensio Lando, che insegna come si condissero: «...  giungerai nella ricca isola di Sicilia, et mangerai di que’ macheroni, ...  Soglionsi cuocere insieme con grassi caponi et caci freschi da ogni lato stillanti butiro et latte, et poi con liberale mano vi sovrapongono zucchero et canella della più fina che trovar si possa: ohimè, che mi viene la saliva in bocca sol a ricordarmene. ...».

(Vittorio Imbriani. L'impietratrice: panzana).

A fare dieci piatti di maccheroni alla napoletana: ...libbre 8 di fiore di farina....once 4 di zuccaro. poi li cuocerai in brodo grasso bogliente e li imbandirai nei piatti o sopra capponi o anadre o altro, con zuccaro e cannella dentro e di sopra.

(Cristoforo Messisbugo. Banchetti, composizioni di vivande..... 1549).

Me deze no piatto Ceccarella

de cierte saporite maccarune

semmenate de zuccaro, e cannella

cosa da far sperire le pperzune.

(Sgruttendio La tiorba a Taccone).

tre so le ccose che la casa strudeno

zeppole, pane caudo e maccarune

(G.B.Basile. Muse Napolitane).

... tre cose strudeno la casa: zeppole, pane caudo e maccarune; ...

(Pompeo Sarnelli.  Posilicheata).

Solo nel settecento, dopo l'invenzione della pressa e della trafila, la pasta non è più fatta a mano. 

Piglia de la farina che sia bella... et fa la pasta... et avoltola intorno ad un bastone. Et dapoi caccia fore il bastone....

(Maestro Martino da Como. Sec. XV.  Libro de Arte Coquinaria).

Le prime industrie di maccarunari sorsero ad Amalfi e Torre Annunziata. La produzione industriale fa sì che la pasta diventi piatto comune e di massa, mangiata non più con zuccaro ma con formaggio e senza l'ignorato pomodoro. 

E' caruto u ccaso ncopp'i maccaruni.

Tu sì felice, e puro te lamiente?

N'avè paura niente

t'è caduto lo ccaso

ncoppa li maccarune.

(G. C. Cortese. La Rosa V).

... ll'è ccaduto

lo vruoccolo a lo lardo,

lo maccarone dinto de lo caso:

( G. B. Basile. Muse Napolitane).

... chille belle piattune

zippe zippe a buonne cchiù

de lasagne, e maccarune...

... e tune sarraie de st'arma caso, e maccarune, ...

(Sgruttendio. La Tiorba a Taccone).

Per lo più si fanno soltanto bollire, e il formaggio grattuggiato serve talvolta di grasso e di condimento.

(Goethe. Viaggio in Italia).

Poi, nell'ottocento arriva il rosso pomodoro (vedi pummarola)  a nquacchiare i maccaruni.  

Nel 1839, il napoletano Don Ippolito Cavalcanti, Duca di Buonvicino, codificando quello che presumibilmente era diventata nel popolino un’usanza alquanto diffusa, nella seconda edizione della sua Cucina Teorico Pratica propose di condire la pasta col pomodoro ed illustrò la prima ricetta del ragù.

A Napoli i maccheroni venivano venduti anche  per strada dai "maccarunari". Un piatto in bianco con formaggio e pepe costava due soldi ed era detto 'o doje allattante, mentre i maccheroni al sugo di pomodoro costavano tre soldi ed erano detti 'o tre garibbalde con riferimento alle camicie rosse garibaldine.

Questi maccheroni si vendono a piattelli di due e di tre soldi; e il popolo napoletano li chiama brevemente, dal loro prezzo: nu doie e nu tre.

(Matilde Serao. Il ventre di Napoli).

mac(e)niéll(o):

Macinino per il caffè. Il caffè era acquistato non tostato. La tostatura avveniva sulla furnacella nel brustulaturo, L'aroma invadeva la casa e il palazzo. Il maceniello era di legno o di metallo, con la leva girevole orizzontale.

Durante la guerra il maciniello, quello grande di legno, serviva per macinare granurino che sostituiva la pasta e la farina per impastare le pagnuttelle di granurino e patane.

machinètta:

Per antonomasia la caffettiera napoletana. Per chi non la ricorda, è composta da quattro elementi: La base con manico, dove si mette l'acqua a vollere; la parte superiore con manico e beccuccio per il servizio;  il contenitore interno con il doppio filtro nel quale viene messo e ncasato il caffè macinato. Quando l'acqua bolle, la machinetta viene rovesciata e l'acqua passa nel contenitore per il lento filtraggio. Sta passanno u ccafè. Spesso si usava bollire la posa e utilizzare quell'acqua densa di tannino per avere un caffè più forte.

-Chi fu l'inventore della machinetta? Nel "Poliorama pittoresco", la più diffusa rivista napoletana dell'epoca, edita da Filippo Cirelli, che dedicò il numero dell'agosto 1837- febbraio 1848 al caffè, si ebbe modo di leggere anche una nota rivelatrice: "... A que' tra i nostri lettori che al par di noi amano bere del buon caffè consigliamo di servirsi della semplice quanto ingegnosa e comoda macchinetta del nostro meccanico Antonino Mariani...".

E chi era costui ? Non si saprà mai: un tecnico, un operaio, certamente un uomo ingegnoso relegato dalla sorte in una nota di giornale.

Un giornale napoletano-.

(Da Orgoglio Napoletano, sito internet).

Macièll(o):

Abbasciumaciello. Il macello del bestiame, in contrada Calastro.

magli(u)(re):

Masticare, mazzecare.

magna(re):

Mangiare

Ca te pozzano magna' i cani. 

Chi fatica magna e chi nun fatica magna e beve.

Chi magna sulo s'affoca.

Magna a gusto tuo e viesti a gusto 'i llati.

Chillo magna a grazia 'i Dio e caca riavuli.

Quanno se magna se cuntratta c'a morte.

Chi magna fa mulliche.

Roppo magnato e vippeto, â saluta vosta.

...Amice mieje, magnammo e pò bevimmo

''nfine ca 'nce stà 'uoglio alla lucerna!

Chi sa si all'auto munno 'nce vedimmo!

Chi sa si all'auto munno 'nce taverna !

(Anonimo del Cinquecento).

Magnammo, amice mieie, e po' vevimmo

nzì c'arde lo locigno a la cannela

pocca st'ora de spasso che tenimmo

scappa, comme pe' mare fa la vela.

(Marco D'Arienzo. Piedigrotta).

Embè... Gnorsì! Magnammo e po' vevimmo

nfi' a che nce sta lucigno a la lucerna!

(Ferdinando Russo. 'O surdato 'e Gaeta).

magnàta:

Mangiata. Quello che si mangia ma il termine ha in sé il concetto di abbondanza e na bella magnata dà l'idea di quantità, più che qualità.

Dimmi quel che mangi e ti dirò chi sei.

Coloro che fanno indigestione o che si ubriacano, non sanno né bere mangiare.

(Anthelme Brillat-Savarin. Fisiologia del gusto).

Quannë amavë a te n'amavë centë
e ji amavë a te pë passatempë
më vurrijë fà na magnatë dë panë
e li gentë comë a te li 'mmannë a fanculë

(Canto tradizionale raccolto a Carpino, Foggia. Stramurte).

Farsi na bella magnata era il sogno del povero.

E na grande magnata è  "La Cena della Zita", canto popolare:

Che s'ha mangiato la zita li durece sere
'na fellata e 'na tagliata
capecuollo e supressata
ddiece casce 'e maccarune
nove cotte e una crura
nove piecure muntature
otto cuoppe de cunfiette
sette valle cantature
sei anguille ben piscate
cinche scope 'na matinata
quatte ranate ben tagliate
tre cetrole l'una e l'ata
ddoje aucielle turturine
annascuse sotto 'o' cuscino
ammieze lu picciungino.

(R. De Simone. La Gatta Cenerentola).

E se durante l'anno il pranzo era povero o modesto, alle feste comandate si guardava per la grande magnata. Ogni paese aveva, ed ora ha, il suo menù delle feste, sempre ricco ed eccezionale. Ippolito Cavalcanti, duca di Buonvicino (1787-1860) ne suggerisce alcuni nel suo testo "Cucina casarinola ne la lengua napolitana", 1837:

Primo Juorno dell'Anno: - Sartù di riso - Fritto de palaje e calamarielli - Capuni a lo tiano - Pasticcio de carne - Arrusto de Vitella - Crema de ciucculata .

Ultemo Juorno de Carnevale: - Timpano de maccaruni - Fritto de treglie - Brasciolone de carne de puorco - Arrusto de feletto de puorco, parlanno sempe co crianza, ma de chillo de Sorriento - Na ncapunata, e na pizza de sfuoglio chiena de sanguinaccio.

Pe lo pranzo de chella bella santa jornata de la Santa Pasca: - Chella bella menesta novella, che se chiamma la paisanella, de cappucce, e torze - No fritto de pagnotte rusteche, che li Franzisi chiammano Altura, Artura, Ortura, Ordura, che saccio che tiermene so chisti - Bollito tutto mmescato de carne de vacca, galline, sopressate, e codelle de puorco - Spezzatiello d'agnello - Arrusto de pollanche - Pastiera.

Pranzo dell'Unnece (undici) de novembre Santo Martino: - Lasagna rusteca - Galline mbottunate a lo tiano - Ntrimé de funcetielli e cervellate - Fritto de grasso de carne - Gallinaccio a lo furno - Pizza d'amarene .

Vigilia de lo Santo Natale: - Vruoccoli zuffritti co l'alice salate - Vermicielli co la mollica de pane, o pure zuffritti co l'alice salate - Anguille fritte - Ragoste vollute co la sauza de zuco de limone, e uoglio - Cassuola de calamarielli e seccetelle - Pasticcio de pesce - Arrusto de capitone - Struffoli .

Pe lo juorno de lo Santo Natale: - Menesta de cecorie - Bollito de vaccina, e aute ccose - Capune a lo tiano - Puorco servatico - Bucchinotti 'mbuttunati de nteriora de pulli - Costatelle de puorco 'ngrattinate - Nzalata cotta de cavolisciore, e vruoccoli - Ammennole 'ncroccanda.

(Ippolito Cavalcanti. Cucina casarinola co la lengua napoletana).