SALVATORE ARGENZIANO
Ho già nominato
Salvatore Argenziano l'erede morale e materiale di Torreomnia. Gliel'ho
detto ier sera per telefono. Tra noi non c'è bisogno di notaio. Siamo
gente d'altri tempi, quando la stretta di mano era una firma sacra.
Resta un piccolo neo: chi di noi due raggiungerà prima i Pascoli Celesti? Ci siamo dati entrambi da vivere perlomeno altri cinque
"...anta", (dieci lustri) col permesso di Nostro Signore che,
quanto meno, quel lontano giorno, ci parlerà in dialetto torrese. Ce lo
deve, il Grande Vecchio, non può farci questo torto. Egli è il solo a valutare a pieno
peso la nostra fatica disinteressata e priva di lucro per Torreomnia,
amore per le origini con tale intensità non molto frequente ai giorni nostri, senza falsa modestia.
Salvatore pure questa volta scruta, analizza, risvolta il lemma e lo
riscopre, lo "fa risorgere"; come nel dopoguerra si faceva con
i cappotti di provenienza angloamericana, a causa della povertà
generale.
Egli sventra la parlata torrese, la estrapola dal ventre materno della
città dalle origini oramai narcotizzate dal malore dell'edonismo e dal
consumismo. Oggi si parla di derrate alimentari preconfezionate,
monosapore, sintetiche, che mirano al solo scopo del lucro, spersonalizzate e con
aromi fittizi, chimici, che danno solo l'illusione della bontà e della
nutrizione; allora si parlava di cibi, di arte personale del comporli,
dell'amalgamarli, del cuocerli. Era la cucina vera, a misura d'uomo,
come Dio l'aveva concepita.
Salvatore Argenziano riscopre la "poesia gastroenterica",
quella del sacrale ragù defilippiano e della tazza di caffè che
"scendeva" dalle ammaccate "napoletane" ,
contrapposto al caffè che sale delle moderne
"espresso".
Una scelta oculata e mirata delle citazioni culinarie che armonizza
questo lavoro, lo esalta e lo sublima e rende il processo metabolico
quasi un poema fisiologico .
Alla terza pagina sei già satollo e
allegretto, e senti di aver nutrito lo spirito insieme alla carne, ma senza nessuna necessità di assumere
bicarbonato.
Luigi Mari
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NOTE DI
REPERTORIO:
IL CASO ARGENZIANO
Argomentando di
"Salvatore in quel di Bologna", slogan, questo, a cui sono
affezionato, mi viene spontaneo dire "il caso Argenziano".
Caso perché egli rappresenta l'emblematico incontaminato in una essenziale
sfaccettatura della rosa di problematiche dell'area vesuviana, nella
fattispecie il malore endemico: edonismo-egotismo di una Torre del Greco
allineata alle città italiane con un reddito, sperequato, s'intende, di
gran lunga superiore alla media nazionale e condizionata da specifici
masi chiusi artistici, economici di settore. Eventi negativi che
calano la qualità della vita compromettendo solidarietà, altruismo.
disponibilità, in una parola la napoletanità.
Il pragmatismo, si sa, fa a cazzotti con l'antica cultura umanistica pregna di suggestioni etico-religiose che non tenevano conto
delle differenze di classe se non per una logica gerarchica, ma che
riusciva ad accomunare davanti a Dio il malato ricco con il malato povero; anche se meno davanti al medico.
Il "caso Argenziano" è visto tale perché dimostra come la perdita di
pregi morali, elevatezze d'animo ed altri valori, dipendono più da un
fatto endemico geografico che da cause epocali di etnicismo di respiro più ampio o,
addirittura di vastità planetaria.
Torrese DOC, (e mi piace ripetere alla De Curtis: torresi si nasce e lui
lo nacque), Salvatore Argenziano con la sua collaborazione
incondizionata a Torreomnia, tiene alto il vessillo del torrese vecchia
maniera, quello della parola mantenuta o della solidarietà, della
disponibilità; il torrese dei baratti sui ballatoi di a laccia e
putrusino; quello della "napoletana fumante" che penetrava
usci, porte e portelle di architettura spagnola, oramai quasi totalmente
falciate dalla ricostruzione.
Per il nostro concittadino il "tempo torrese" si è fermato
nel momento in cui mise piedi fuori la Porta di Capotorre; ideale
pargolo imberbe con alcuni anta, rivive oggi nitide le processioni
profuse d'incenso e di afrore degli anni cinquanta, le pollastre dei
poveri (pullanchelle) fumanti lungo il ciglio delle strade, i cazzabbocchi della
Carmenella, i ceci e i semi di zucca tostati dei miraggi hollyoodiani
dei Gradoni e Canali.
L'evocazione nei "Ricordi" rivela i primi turbamenti giovanili
dell'autore causati dai tedeschi e dagli anglo-americani. Una "Recherche",
tuttavia, poetica, metricamente libera, quindi descrittivamente più
autentica.
La Torre del Greco di mezzo novecento insieme a Salvatore Argenziano sono
l'idillio, due pargoli amanti, castigati dal sortilegio dell'amore
indissolubile, una Giulietta e un Romeo divisi da un destino
incontrastabile, ma uniti per sempre nei precordi.
Il torrese, in genere, che vive fuori porta (nella fattispecie di
Capotorre) idealizza e sublima la Patria del Corallo, soggiace alla
nostalgia e al lucore soffuso dei ricordi e questo lo risolleva dal
giogo delle problematiche epocali attuali dell'area geografica che lo
ospita. Dietro questa molla Salvatore Argenziano ha donato ai suoi
compaesani, tramite Torreomnia, due gemme, per il momento: "Ricordi"
e il "lessico torrese-italiano", che spera di ampliare con la
collaborazione fattiva dei concittadini.
Dal primo componimento si evince la lirica che scaturisce dalla
componente onirica, prevalente sul fatto epico, eventi, date,
bombardamenti, sfollati, eruzione, ecc.
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Tuttavia una
storicità a mezza strada tra la storiografia e la cronaca, come fatto
descrittivo, ma tutto diafano, incerto e sicuro insieme, come l'uomo, come
un pensiero lontano, come
un romantico, perduto amore. Una prosa in versi e dei versi in prosa, quelli di Salvatore Argenziano,
che descrivono e sottolineano non già solo l'accaduto, ma la velata
apprensione dell'accadibile che coinvolgono esistenzialmente la sfera
affettiva di ogni genere di lettore, fuori del tempo, fuori del luogo,
fuori della realtà, perché coinvolgono il dilemma eterno dell'uomo,
animale sempre
ossessionato dai dualismi male-bene, amore-odio che allignano
soprattutto nei conflitti bellici, specie quello descritto appunto dall'Argenziano.
Ma, forse senza saperlo, o semplicemente perché egli vive fuori Torre,
le note amare del racconto, le bassezze e lo squallore di una guerra
così malapartianamente devastante hanno nociuto soprattutto non già
solo sul morale quanto la moralità dei vesuviani; Argenziano, quindi,
vedeva preannunciato
quello che poi si doveva rivelare: quel certo degrado, come ho
detto, della qualità della vita
nella cintura vesuviana, come una cancrena morale mai sanata, ma
consolidata dalle leggi spietate del business, dei mass-media-grancassa,
dei feroci pseudo modelli sociali propinati indiscriminatamente e
gratuitamente anche in un'area sociale che adoperava panacee e toccasana
come le icone dei Santi, e gli scongiuri in un unico ibrido rituale.
La nostalgica descrizione dei "Ricordi" si ricuce diritta alle
odierne guerre dell'animo umano, tra le stesse mura domestiche, tra lo
stesso condominio, tra la stessa città. E' importante leggere lo
spaccato descrittivo dell'Argenziano che subdorava già una vaga idea di
un probabile 68 il quale, insieme a giuste rivendicazioni, ha causato un
distacco troppo netto e repentino tra due generazioni favorendo, come
dire, manodopera per i gestori dei mutamenti epocali in fatto di
edonismo, consumismo, europeizzazione fino alla globalizzazione;
mutamenti che saranno pure coerenti e consoni alle esigenze
tecnico-scientifiche e
demografiche attuali ma che hanno compromesso fino all'osso i
tradizionali valori, i rapporti generazionali in un clima di totale
incomprensione, confusione e disadattabilità e utopia rispetto ai
modelli sociali.
La seconda fatica di Salvatore Argenziano è il "vocabolario
torrese-italiano", un'opera meritoria che solo un torrese irriducibile
come lui poteva stendere. Egli compie una minuziosa ricerca per i
termini più reconditi. Un recupero di parole ed espressioni che vanno
perdendosi nei meandri del tempo. Proprio perché egli, lontano dalla
terra natia, quindi affatto contaminato, dicevo, dai malesseri endemici della
specifica area vesuviana,
poteva progettare e stendere con generosità, senza riserve e
quant'altro di negativo per Torre del Greco.
Chiaramente si spera nella
collaborazione di tutti perché questo lavoro possa crescere, poiché
molti termini precipui, di stretta settorialità vengono tramandati solo
verbalmente.
Ribadisco quello che ho detto in apertura: "il caso Argenziano"
sia antesignano per le vere iniziative culturali per Torre, fuori dai
masi chiusi della cultura locale; lontano dagli individualismi
dottrinari e dai feticisti della raccolta storica di notizie e
foto, materiale spesso finito nelle pattumiere dopo le inevitabili
dipartite a cui è predestinato ognuno di noi.
Non dimentichiamo le parole del saggio: "il dolore può bastare
a noi stessi, ma per vivere veramente una gioia bisogna condividerla con
gli altri".
Luigi Mari |