Introduzione
di Luigi Mari
Peppe D'Urzo è un autore prolifico e singolare. Le sue ricerche
sono incredibilmente analitiche, di introvabile valore didattico. I
lavori che vengon fuori sono "ritratti" dove non sfugge
nemmeno il particolare più minuto. Non solo. Mentre una foto ritrae
tutto ciò che è visibile, presente, Peppe allarga ad estuario il
suo pensiero ora sulla località, adesso sul personaggio, sempre nel
tepore della memoria, in maniera tale da rendere inevitabile quel
sapore poetico presente in tutte le reminiscenze. La Torre del Greco
di Peppe è Durzo stesso! Come diceva di se Marotta: "la Napoli
che racconto sono io, perché solo di me so qualcosa, se lo
so".
Gli scritti di Peppe D'Urzo non ostentano analisi scelta, egli non
adopera schiccherature mestieranti, dialettiche accattivanti per
soggiogare e intimidire il lettore, sacrificando la notizia, il
contenuto. Il testo, di primo acchito, va appena oltre la dimensione
dell'annotazione, della cronaca, della storiografia lineare, ma la
prosa è certamente straordinariamente ancorata al tessuto
connettivo dei precordi, delle intense emozioni di un umanistico,
fidente, franco passato, quello dei nostri nonni, lontani dai covoni
bancari, dal pragmatismo e dall'asetticità.
I suoi racconti, dunque, i suoi "graffiti", le sue
interviste celate e mimetizzate nel componimento aperto e spontaneo
fuggono a tutti i costi l'artificiosità, ma scatenano l'emozione
come le vecchie lettere degli emigranti intrise di quintessenze.
Un secondo aspetto, non meno prezioso, che quasi passa inosservato
perché scontato persino per l'autore, è quello mimetico dei
dialoghi, apparentemente inesistenti; ma soprattutto emerge la
certosina fatica glottologica che spesso si estende sino alla
filologia, poiché la terminologia torrese antica vastissima e
spesso sconosciuta, perché vetusta, è ricercata minuziosamente non
solo nell'etimologia, ma nella storicità della coniatura. Quasi un
richiamo alla sperimentazione gaddo-pasoliniana del dopoguerra.
Testi, quelli del D'Urzo, che, apparentemente lineari e illetterati
nel senso artistico, (comunque privi di artificiosità di mestiere,
con buona pace di Croce o di Flora) , si rivelano uno studio
storico-aneddotico introvabile in tutti i suoi predecessori torresi.
Se si affonda nel substrato, intanto, si raccoglie, comunque, anche
una prosa dove contenuti e forma sfiorano, sforano e ritornano in un
candore narrativo, per così dire lirico, ispirato, ideale,
fantasioso, anche se a tratti tremendamente crudo di realtà
materiale e biologica, con eventi anche tragici: lutti, angosce,
fusi immediatamente prima e dopo con esultanze, letizie, atti
d'amore. Ma come in ogni assimilazione letteraria molto dipende
anche dalla soggettività del lettore, dal suo gusto, dalla sua
preparazione culturale, dalla sua condizione emotiva, sociale,
anagrafica infine.
E sono, senza dubbio, proprio atti d'amore dedicati alla sua cara
Torre del Greco che Peppe d'Urzo compie, quasi religiosamente,
nell'emozione più intensa e recondita, ogni volta che mette penna
su carta. Ed egli ama Torre ogni ora, ogni giorno, da sempre; da
quando, pargolo, d'estate, sentiva il tepore del nostro sole
generoso sotto i plantari sullo scoglio francese, con le nari
narcotizzate dagli aromi delle pietanze materne traboccanti d'amore
e di benevolenza.
Solo un grande amore per le proprie mura, per la propria gente,
giustifica la fatica immane che compie da anni, instancabile,
insaziabile di storie e di fatti, di eventi e tradizioni.
Grazie, Peppe D'Urzo, grazie di amare così tanto la nostra città.
Ti voglio bene. Spesso, quando ti leggo, mi fai quasi "ridere
sotto gli occhi...".
Luigi
Mari
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