
Michele Izzo , l'ultimo puparo torrese
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Come negli altri due
testi di Michele Izzo, presenti in Torreomnia, non sono state
qui apportate correzioni per non "contaminare" l'autenticità e l'intraducibilità
vernacolistica traslitterate dall'Izzo dalle espressioni verbali
popolari per suo "dono" naturale non già di "non
scrittore", ma di "non scolaro". Ciò
sacrifica le più elementari, legittime
convenzionalità linguistiche, con buona pace di Croce, Flora o chi per
loro, ma lascia cogliere la fragranza dell'ambiente, la
musicalità della strada, la cultura fuori dall'analisi scelta,
cromosomicamente viceregnista, lazzaronica. Una "ripresa
dal vivo" con montaggio in macchina senza RVM, con spurie,
interferenze, lungaggini e ripetitività, ma sacralmente
veristica. Bisogna intanto riconoscere al nostro l'abilità di scrivere a
braccio e "ad orecchio" non essendo stato nemmeno
autodidatta. Teneri, ad esempio: (e ct) per (ecc.); (ha proto)
per (approdò); (ha detto) per (addetto); (acidilè) per
(acetilene), ed altri graziosi suoni coniati ad orecchio in
parole.
E' sorprendente, intanto, il costrutto della
narrazione, la ricchezza di particolari, la lucidità dell'ottantenne
"cantastorie" più che narratore, la memoria limpida e presente dell'anziano, l'amore sconfinato
per questa, denominata ingiustamente,
"arte minore".
Ma ciò di cui bisogna avere un "religioso
rispetto" è l'evidente esaltazione dei precordi, la riuscita sublimazione
nostalgica; quella sorta di "Recerche" proustiana che alimenta la
linfa nella terza età, che esorcizza l'esistenziale allo stadio
finale, che medica la problematica senile odierna. Izzo
quasi rivendica l'anziano del terzo millennio, sfortunato erede della defunta cultura
umanistica.
Questa sezione completa la trilogia, per così dire, delle memorie dell'Izzo,
che costituisce l'unica testimonianza torrese della storia dei pupi, non solo, ma rappresenta un vivido revival
nostrano nello spaccato di secolo XX tra le due guerre.
Luigi Mari
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L'OPERA DEI PUPI
A TORRE DEL GRECO
I Buonandi
e i Pupanti napoletani
Sono l'ultimo puparo di tradizione napoletano
"Torrese" con ottantuno Natale alle spalle e una del terzo
millennio, memoria da computer dove ciò accumulato fatti, aneddoti,
storie, episodi di vita vissuta. È da tutte le cose che io ricordo ho
ricostruito la storia dell'opera dei pupi a Torre del Greco.
Un tipo di teatro valutato di seria "B"
dagli Studiosi, come teatro minore nella nostra città a operato per
più di mezzo secolo, introdotto è gestito sempre dai Buonandi.
Ciò che scrivo non è frutto della mia fantasia, ma vivi ricordi
presenti tutt'oggi nella mia mente. In parte acquisite per esperienze
vissute, altre raccontatemi da un vecchio puparo mio maestro. Quest'anno
ricorre il quarantunesimo anno della sua scomparsa e centodieci della
nascita.
Questo mio racconto è un doloroso omaggio alla sua memoria, ed
espressione di gratitudine ai colleghi scomparso.
Michele Izzo
Nel 1890, a Napoli si sciolse la compagnia del teatro
"Masaniello" ubicato fora 'a marina (fuori la marina) i
componenti della stessa cercarono un'altra strada: chi si mise in
proprio, chi si scritturò in un'altra compagnia e altri si spostarono
per la provincia.
Filippo Buonandi, con la sua famiglia e con pupi ed altro materiale di
sua proprietà ha proto (approdò. N.d.r.) a Torre del Greco, dove aprì
il suo teatro al 1° vico Annuziata, un locale piccolo tutt'oggi
esistente. Si può indovinare questo locale recandosi d'into vico dè
crape (vico delle capre) la prima porta quanto si entra a sinistra, in
modo che ciascuno possa rendersi conto di quanto era capiente, i posti a
sedere erano costruiti di legno arrangiate dagli stessi teatranti.
All'epoca, il teatro con i pupi si serviva per la
colonna sonora come sottofondo musicale rulli di tamburo e colpi di gran
cassa. Prima che incominciasse lo spettacolo, e nell'intervallo tra il
primo ed il secondo, la grancassa (grosso tamburo) veniva suonata fuori
della porta d'ingresso per richiamare il popolo.
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Colui che batteva
questo tamburo, gridava a squarciagola dicendo: "Jammo ca mò s'aiza",
alludente all'apertura del sipario, (il sipario di prima era di tela
dipinto e andavano su è giù, poi fu sostituito con tendaggio che
s'apriva in due, oggi pare che non serve proprio perché li bastano
l'effetto di luci) poi appena lo spettacolo incominciava l'uomo addetto
all'imbonimento alla gente rimasta fuori diceva " j 'ammo che sé
già 'aizato", nell'interno poi il rullo del tamburo si usava per
il combattimento, per richiamare alla battaglia, e quando s'incontravano
le corti opposte.
Il capo della compagnia era un uomo attempato, ed era il padre padrone
per rispetto dell'anzianità lo chiamavano Zi Filippo (Zio Filippo). Chi
operava sul ponte per animare e prestava la voce al pupo si leggeva la
parte dal copione ch'era istallato avanti sull'apposito leggio, ma se
perdeva il segno alla lettura improvvisava la battuta e andava ha
braccio, anche per un qualsiasi inconveniente tecnico bisognava essere
pronti all'improvvisazione.
Una sera accade che, mentre erano presente sulla scena Carlo Magno con i
suoi consiglieri a corte riunita, un bambino di un tre quattro anni
uscì sulla scena in mezzo ai pupi per giocare. A questo punto quello
che recitava e prestando la voce a Rinaldo disse: "Bambino cosa
faì?" rispose Zi Filippo col tono di voce che usava per Carlo
Magno: "Lascialo stare che quello è Filippetto il nipote di zio
Filippo", la scherzosa battuta fu coronata da un applauso e una
risata in coro di tutti presenti in sala. Il teatro di Zio Filippo a
Torre ebbe vita breve e poi si trasferì a Castellammare di Stabia.
Tra il 1895/96 arriva a Torre Pasquale Buonandi con la famiglia,
impiantò il suo teatro in un bel locale assai più ampio di quello
dello zio Filippo, il locale di cui parla non c'è più il palazzo tutto
fu danneggiato dai bombardamenti nel secondo conflitto Mondiale, ed era
ubicato in corso Umberto 1°, di fronte alla Chiesa del SS. Rosario.
Pasquale Buonandi venne a Torre con una lettera scritta dal capo in
testa dell'Onorata società dalla capitale da consegnare a chi dirigeva
la camorra di Torre del Greco, un certo don Luigi "non sapeva ne
leggere e ne scrivere" la lettera fu letta da chi l'aveva portata,
il contenuto della missiva era da proteggere la famiglia da chi
l'avrebbe molestato con ricatto o cose del genere. Don Luigi promisi di
occuparsi della protezione, li disse dove stava di casa è se occorreva
anche di notte sarebbe arrivato per proteggere dai mali intenzionati. Il
teatro fu istallato, i Buonandi babbo e figli avviarono a lavorare con
due spettacoli serale con un incasso da poter vivere.
Una sera al botteghino si presentarono quattro giovani "picciuotti"
(aspirante camorristi) erano caprai (pastori) e facchini (scaricanti di
merce varie), che essendo ubriachi molestavano la cassiera, figlia del
gestore: gli ubriachi |