Vincenzo Romano pag 4 di10

 
           Ecce Homo (anonimo) Sec. XVIII
            conservato nella casa del Beato

Si calcola che « nell’anno 1736 partirono alla volta dei mari di Calabria ben tremila torresi per la pesca dei pesci » ", mentre « nel 1727 erano dediti alla pesca del corallo un migliaio di pescatori e centoventicinque padroni di barche che si spingevano fino alle coste dell’Africa, oltre che della Sicilia e della Sardegna » ". Vi erano poi i piccoli pescatori che si arrangiavano come potevano a pescare con « sciabica » e « tartana » nelle vicinanze.
La cittadina di Torre del Greco contava nella santa visita del 1742, effettuata dal cardinal Spinelli, 8851 abitanti (4575 uomini e 4276 donne), saliti a 11.000, secondo la testimonianza del parroco Falanga, nel 1761, dieci anni dopo la nascita di Vincenzo Romano ". Nel 1780 gli abitanti risultano 15.000 circa"; raggiungeranno il numero di 15.766 nel 1789 ", e di 16.221 nel 1794 ", alla vigilia dell’eruzione vesuviana, che spopolerà quasi interamente la città. Solo 800, infatti, non si allontanarono, mentre gli altri cittadini si rifugiarono a Napoli e in altri centri, quali Torre Annunziata, Castellammare di Stabia, Nocera, Cava, Sorrento. Ma gia qualche anno dopo i rifugiati erano tornati in massa e la vita era ripresa attiva e dinamica. Nella relazione per la santa vi- sita del 1803, il parroco Romano enumera 12.863 abitanti, cosi distribuiti: 6561 uomini e 6302 donne ".
Nel 1808, in una lettera inviata al papa Pio VII, parla dei suoi parrocchiani « che ascendono a dodicimila circa » " e ne1 1826, in un’al- tra lettera inviata al cardinale di Napoli, parla della sua parrocchia «composta di quindicimila anime» ". Nel 1831, poco prima della sua morte, la popolazione ascendeva a 17.000 abitanti ". Sul territorio parrocchiale si contavano 10 chiese, 30 cappelle e 16 oratori privati ": un numero cospicuo di luoghi sacri, atti a coinvolgere quasi tutte le forze del clero diocesa
no locale. Delle chiese la meta apparteneva a comunità religiose mentre le altre erano amministrate dai fratelli delle rispettive Congregazioni; solo una (dedicata alla Santissima Trinità) era gestita da governatori laici.
Delle cappelle, alcune erano state edificate all’indomani dell’eruzione vesuviana del 1794 ad opera di signori napoletani a proprie spese, come la cappella di Santa Maria di Portosalvo, col consenso del parroco Romano e del clero locale, ed altre ad opera di zelanti sacerdoti torresi, come la cappella di San Giuseppe Calasanzio. In alcune di queste chiese Vincenzo Romano svolse la sua attività apostolica.
Ordinato sacerdote il 10 giugno 1775 nella basilica di Santa Restituta in Napoli, «sul principio del suo sacerdozio fu fatto cappellano della cappella rurale di San Gaetano de’ Padroni di Pollio, ed ivi in tutte le domeniche e feste cominciò a spiegare il santo Evangelo nella messa e fare le istruzioni a quella povera gente di campagna che con sommo piacere e frutto le udivano. Duro tale esercizio per circa tre anni » (della cappella attualmente non esiste più traccia). In seguito, «per ubbidienza» fu fatto cappellano del monastero di Santa Teresa, «che allora esisteva nella Torre e poi per l’eruzione del 1794 fu traslato in Napoli».
Dopo 1’eruzione del 1794, quando fu devastata la parrocchia e fu fissata temporaneamente nella chiesa del Carmine, «si occupò a predicarvi ogni domenica nel dopo pranzo». Queste sono le chiese dove Vincenzo Romano svolse il suo ministero apostolico «ufficialmente» alla vigilia della sua prepositura, ma bisogna tener presente che dai «primi anni del suo sacerdozio predicava gratis in diverse chiese di Torre».
Da parroco, egli utilizzo per le opere apostoliche soprattutto quelle chiese e cappelle che erano nelle immediate vicinanze della parrocchia di Santa Croce, ma non tralascio di visitare anche quelle situate molto lontano.

Oltre alla ricostruzione della parrocchia, volle riedificare anche la cappella del Rosario, che era suo beneficio, e delego don Salvatore Noto a fondare in essa una cappella serotina, nella quale si facevano esercizi diurni e festivi. Si prestava volentieri ad andare nelle cappelle rurali quando vi erano delle funzioni o delle feste. Qualora la cappella rurale fosse molto distante, delegava qualche sacerdote a fare da cappellano e a tenerne cura.
Ecco una significativa testimonianza del sacerdote Pasquale Mazza:
Badava ai figliani anche i più lontani, e mi ricordo che trovandosi una Cappella rurale intitolata a Santa Maria del Monte Carmelo, volgarmente detta Bruna, situata due miglia circa di- stante dall’abitato, abbandonata, e con una sola messa la festa, egli mi mando ad insegnare la dottrina cristiana ogni festa a quei poveri villani, pagando anche sei ducati per concorrere alle spese di un corso di esercizi in quella Cappella fatti per istruire quella gente e richiamarli a frequentare la Cappella ogni festa. Oggi quella Cappella e ampliata anche nel fabbricato e frequentata da quei vicini figliani, ed io la curo da allora.
Egli aveva grandissimo impegno acciò si disseminasse la Parola di Dio in tutte le chiese della sua ottina, e difatti dall’epoca che egli fu economo curato, per sua premura s’incomincio a predicare per tutte le chiese della Torre, giacche precedentemente si soleva predi- care nella sola Parrocchia, e nella Chiesa del Carmine ove predicava egli stesso, ed egli promosse quella generale predicazione ".


       Oggetti e arredi sacri appartenuti al Beato
            conservati nella casa di Via Piscopia

Comunita religiose

Le comunità religiose a Torre del Greco furono in passato abbastanza floride (domenicani, carmelitani, carmelitani scalzi, detti pure teresiani, frati minori osservanti, cappuccini e camaldolesi). In tutto furono sei. Al tempo di Vincenzo Romano solo la comunità dei domenicani era scomparsa e la chiesa del Rosario da loro retta era affidata al parroco pro tempore.
Nella relazione per la santa visita il beato annota: «Vi sono cinque monasteri di religiosi: il monastero dei Te resiani composto di otto religiosi, i quali vivono di entrate; il monastero dei Camaldoli composto di dodici religiosi, e questi vivono ancora di entrate; il monastero dei Cappuccini composto di diciannove religiosi, che vivono di limosine; il monastero dei Minori osservanti, detto della Madonna delle Grazie, composto di tredici religiosi, i quali vivono di limosine; il monastero dei Carmelitani, composto di religiosi n. sette, i quali vivono di entrate e parte ancora di limosine. In tutto Regolari 59 » ". Il convento dei domenicani viene definito « magnifico » e la chiesa del Rosario detta di « magnifica struttura ».
Il valore dell’intero complesso, fondato nel 1614 e quasi completamente distrutto dall’eruzione del 1631, era valutato in torno ai 25.000 ducati.
Alla metà del secolo XVII rimaneva una piccola chiesa e un piccolo convento, nel quale abitavano due sacerdoti e un oblato, i quali andarono via nel 1653, « anno in cui una disposizione ecclesiastica faceva cessare quell’istituzione in Torre e derogava le rendite sue in beneficio del parroco, dicendosi che la parrocchia era vasta e numerosa, quindi necessitava di cooperazione al di cui mantenimento dovevano servire quelle rendite» ". Il convento di Santa Maria del Carmine fu fondato dal padre Alberto Comparato nel 1566. In esso era venerata una miracolosa immagine della Vergine del Carmine.
La grande devozione popolare e le cospicue elemosine fecero si che nel giro di circa mezzo secolo, il convento fosse in grado di mantenere 20 religiosi. Tanta floridezza venne distrutta dall’eruzione del Vesuvio del 1631, che lascio intatta solo la cappella dove si conservava la prodigiosa immagine. Non essendo stato possibile restituire al convento una dignitosa condizione, esso fu soppresso da Innocenzo X nel 1652. A seguito della peste del 1656, durante la quale la Vergine del Carmine sarebbe
apparsa in sogno ad un contadino, lamentando la trascuratezza verso la sua immagine (nella chiesa venivano abbandonati, senza sepoltura, i cadaveri delle vittime del morbo), si ravvivo la devozione e fu avviata la ricostruzione della chiesa.