Vita
religiosa
a Torre del Greco
La parrocchia di
Santa Croce

Interno
della casa del Beato di Via Piscopia
L’antica chiesa parrocchiale di Santa Croce, nella
quale Vincenzo Romano era stato battezzato
lo stesso giorno in cui era nato, che aveva segnato le varie tappe della
sua vita cristiana fino al sacerdozio, fu annientata dall’eruzione del
1794 ’. « Era questa una delle più belle chiese che si potessero mai
vagheggiare e per la sua struttura e per i suoi ornamenti », annota il
beato in una relazione manoscritta, «ed era al colmo della sua
magnificenza, quando nella notte seguente al di 15 giugno 1794 fu
investita dal torrente del fuoco eruttato dal monte Vesuvio, che tutta
la seppellì nelle sue rovine». Peccato che non vi sia rimasta neppure
una pietra: possedeva vari altari di marmo; sculture di Lorenzo Vaccaro
e di Nicola Fumo adornavano 1’altare maggiore e quello di san Nicola
di Bari; dipinti di Luca Giordano, Francesco Solimena e Paolo De Matteis
erano posti su alcuni degli altari laterali, mentre alle pareti delle
navate otto quadri raffiguranti i santi patroni di Torre del Greco erano
opera di Francesco de Mura.
Quando Vincenzo Romano comincio a guidare la parrocchia in veste di
economo curato nel 1796, il tempio non esisteva: « i confini di mia
parrocchia non si possono precisa- mente determinare per mancanza di
documenti, che sono stati abbruciati dalla lava vesuviana del 1794; ma
secondo quello che si dice qui, e si costuma nell’amministrazione dei
sacra- menti, cominciano dalla lava detta di Fiorillo che divide la Real
Villa di Resina (dalla parte superiore inclusa la masse- ria dei
Vergini) da detta Torre; e per la parte opposta dalla villa di Prota
inclusive, e perciò mi rimetto a ciò che sta fissato nella visita del
Cardinale Spinelli». Egli ebbe molto a soffrire per la riedificazione
della parrocchia, ma non si disanimò. «Nel medesimo sito... e di
pianta anche più vasta della caduta» ricostruì la nuova chiesa.
Col tenue peculio di mille ducati, ritratti da quei pochi oggetti che si
trovavano sotto le rovine, tra le parole scoraggianti, beffe ed insulti,
il Servo di Dio si pose all’intrapresa, e solamente fidando in Dio, dié
mano all’opera ingente che fu tirata innanzi con l’elemosine date
dalla marinaria, raccolte dalle sue premure e maniere da santo,
accordando in ogni tempo di festa, il tempo ai faticatori di trasportar
pietre, calce, cemento e tutto ciò che abbisognava, dandone egli il
primo esempio, trasportando cofani di pietre e terreno.
Appena incominciata l’opera crescevano le difficoltà e gli
scoraggiamenti, si aumentavano i sarcasmi contro il Servo di Dio, e come
sentiva qualche disprezzo, egli più si animava nella confidenza nel suo
Signore.
Chi diceva: sarà impossibile veder finito il tempio; chi diceva: che
potrà fare il Parroco? Gli passavan per dinanzi alcuni antipolitici
saccenti, e sorridendo dicevangli: ha fatto una buona stalla per le
bestie dell’esercito francese. Ma egli non aveva altro in pensiero che
il suo Signore che tutto può con un sol cenno della sua volontà, in
guisa che, per quanto crescevano le difficoltà, cresceva lui la
confidenza in Dio, e l’alacrità nella continuazione dell’opera,
dicendo sempre a chi lo scoraggiava: se Dio vuole, la chiesa
infallibilmente si farà, se Iddio non vuole non si farà.
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Torre del Greco dista
circa dodici chilometri da Napoli ed e situata in posizione privilegiata
tra le pendici del Vesuvio e il mare. Nel 1790, Giuseppe Galanti
descriveva questa terra come un piccolo Eden e definiva il suo clima
molto salubre: «l'aria vi e di un’attività che riesce meravigliosa a
ristabilire tosto quegl’infermi che sono affetti da mali che non hanno
posto profonde radici».
Ma Torre del Greco vantava qualità terapeutiche già sul finire del
secolo XVI, se Camillo de Lellis, fondatore dei Ministri degli infermi,
vi aveva accompagnato i suoi confratelli « per sottoporli alle speciali
cure che qui si davano ai malati di petto » ’. Anche gli arcivescovi
napoletani, incominciando dal beato Paolo Burali d’Arezzo, venivano
«a pigliar aria», e il cardinal Spinelli volle porre qui la sua
residenza estiva, facendo costruire una bellissima villa alle pendici
del Vesuvio (nella villa, recente- mente restaurata, vi soggiornavano
tutti gli arcivescovi di Napoli fino ai giorni nostri, da qui la sua
denominazione di «Villa del Cardinale»).
A Torre viveva anche i suoi ozi parte di quella aristocrazia napoletana
che, alle falde del Vesuvio, aveva trovato il luogo ideale per
costruirvi le sue ville. Al tempo di Vincenzo Romano avevano i loro
«casini» a Torre il marchese Rota, Vallelonga, il duca Onorato di
Laurenzana, ministro di stato e luogotenente generale in Sicilia, e
moltissimi altri nobili o aristocratici che amavano trascorrere qui le
vacanze.

Un
altro angolo della casa del Beato
Ciò comportava un supplemento d’azione pastorale del parroco Romano,
il quale «ci teneva» che il suo popolo non fosse distratto dalle
pratiche religiose. Una volta, entrato in casa del duca di Laurenzana,
«con belle maniere fece una sua ammonizione» e gli disse che nell’ultima
settimana di carnevale «non era costume in Torre di usare delle
maschere, mentre il popolo era intento a celebrare le Quarantore».
Torre del Greco era nel secolo XVIII come un porto di mare. Oltre ai
signori napoletani che venivano a diporto, c’erano molti forestieri
stabilitisi per l’industria e il commercio che in quei tempi era di
notevoli proporzioni.
D’altra parte, le comunicazioni con la capitale e con gli altri centri
del golfo erano diventate più agevoli dopo che Carlo III aveva scelto
Portici come sede della propria reggia. Le campagne, oltre a mostrare un
notevole incremento della frutticoltura per soddisfare le esigenze della
popolazione locale e di quella napoletana in continuo e forte aumento,
si arricchirono di numerose costruzioni lungo la strada litoranea e il
cosiddetto «miglio d’oro».
Questo particolare sviluppo edilizio contribuì non solo a far conoscere
ed apprezzare le bellezze della zona, ma provoco anche un miglioramento
delle condizioni di vita delle campagne, determinando un cambiamento di
mentalità nei contadini e alimentando un generale fervore di attività
economiche e culturali. Torre del Greco si qualificò sempre di più
come centro di mercato e di approvvigionamento della città di Napoli,
con la quale i rapporti di affari e di cultura divennero via via più
frequenti, tanto che il bisogno di collegamenti più rapidi porto alla
costruzione della linea ferroviaria statale nel 1841.
L’attività marinara costituì l’altro polo economico dei cittadini
torresi nel corso del secolo XVIII. Essi erano impegnati in una duplice
industria marittima, quella del pesce e quella del corallo. Alla pesca
dei pesci i marinai torresi si rivolgevano nel periodo dell’anno in
cui era permesso, e che pare abbracciasse i mesi da ottobre a maggio.
Tale pesca risultava meno rischiosa di quella del corallo, ed era
praticata dalla maggior parte degli uomini.
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