
La
casa del Beato a Via Piscopia
Un pensiero raccolto dai suoi scritti può esprimere bene il programma
del nuovo pastore: « Gesù Cristo dev’essere il nostro esemplare e
modello e libro: in lui dobbiamo ogni giorno studiare l’umiltà, da
lui copiare tutte le virtù... ». A realizzare questo ideale, il
parroco fu sempre occupato, sempre vigile, tutto fuoco e amore. Non
tralascio un solo compito del suo ministero, come predicare la parola di
Dio, confessare, assistere gli infermi e specialmente i moribondi,
istruire gli ignoranti nella fede, confortare gli afflitti, ricondurre i
fuorviati, imitando in tutto Gesù Cristo « il quale passo la vita
facendo il bene » (At 10,38).
Ma nell’attendere a tutto questo era consapevole dell’ammonimento di
Paolo: «Chi pianta non e nulla e nemmeno chi innaffia; e solo Dio che
fa crescere» (1Cor 3,7). Ai confratelli confidava: «Questo e il
compendio di tutta la perfezione di un sacerdote, questo ne costituisce
la felicita e la gloria: imitare Gesù Cristo, seguire le orme di Gesù
Cristo, vestirsi di Gesù Cristo, essere una viva copia di Gesù Cri-
sto, fare in se un vivo ritratto di Gesù Cristo che vive, che parla,
che opera, che patisce...».
In tutto egli si rivelava ministro di Dio «con le fatiche, con le
veglie, i digiuni, la purezza, la scienza, la longanimità, la bontà,
con lo Spirito Santo, con una carita sincera e la parola di verità»
(2Cor 5,5), come una torcia che si deve consumare per Gesù Cristo.
Fedele ai canoni del concilio di Trento, che imponevano al parroco 1’obbligo
della residenza, come il santo Curato d’Ars, non passo una sola notte
fuori della sua parrocchia. Non lo smossero dal suo posto neppure le
successive eruzioni vesuviane del 1805 e del 1822, ne le burrasche
politiche. Il primo giorno dell’anno 1825 comincio per don Vincenzo
Romano una lunga via crucis che duro circa sette anni e che il
curato sopporto con indicibile fortezza e pazienza.
Caduto in casa, mentre si affrettava ad uscire presto per la messa del
mattino, riportò la frattura del femore della gamba sinistra. Chiamato
d’urgenza da Napoli un chirurgo, questi s’adoperò con somma carità
per la sua guarigione. Ma solo dopo alcuni mesi, reggendosi sulle
grucce, incomincio a camminare e a trascinarsi in parrocchia, assistito
da un suo fedele. Così fece per cinque anni, sforzandosi, per quanto
possibile, di non tralasciare
alcuna delle sue attività pastorali.
Il 2 febbraio 1830, recatosi come al solito in parrocchia, mentre
celebrava la messa svenne. Immediatamente soccorso, venne portato a casa
su di una sedia e non poté più uscire. All’inizio della novena di
Natale del 1831, le condizioni dell’infermo si aggravarono. Era stato
colpito da una polmonite, subito diagnosticata dal medico. Si dispose a
ricevere i supremi conforti della fede con grandissimo fervore e totale
rassegnazione. Era 1’ultimo passo verso il compimento della volontà
di Dio, che sempre era stata suo «cibo».
Ai numerosi sacerdoti e laici recatisi al suo capezzale don Vincenzo
dice: «Pregate il Signore che mi dia la grazia di fare un buon
passaggio; non abbiamo qui una città stabile, ma andiamo in cerca di
quella futura; conservate la carità fraterna; e venuto il tempo, debbo
morire». E il Nunc di mittis del santo curato di Torre del
Greco.
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All’alba del 20
dicembre 1831 Vincenzo Romano chiuse la sua laboriosa giornata terrena e
aprì gli occhi alla luce del cielo per ricevere il premio promesso dal
Buon Pastore ai suoi ministri fedeli.
Morì povero dopo aver vissuto poverissimo. In un baleno si diffuse la
notizia da un capo all’altro della città e vi fu un accorrere enorme
di gente verso la casa del preposito. Non si riusciva a capire se era un
morto che si andava a visitare o un santo che si veniva a venerare. La
voce del popolo, quasi eco della voce di Dio, gridava: «E' morto santo
il nostro Preposito!».
Dall’uscio di casa facevano ressa, volevano vederlo, toccarlo,
baciarlo e portar via qualcosa di «suo», come una reliquia del padre
più caro. La chiesa parrocchiale di Santa Croce, pur vastissima, non
riuscì a contenere la folla convenuta per le esequie. Il clero e le
autorità civili fecero istanza alla Curia per il deposito canonico
della salma. Ricevuta l’approvazione, si fece la ricognizione canonica
e Vincenzo Romano fu seppellito nella cappella di San Francesco di Sales,
tra le lacrime di tutto il popolo. Fu poi rivolta istanza al cardinale
di Napoli che aprì il processo informativo sulla vita, virtù e
miracoli del preposito.
Il 13 giugno 1843 Gregorio XVI, firmo il decreto di introduzione della
causa («Gloria sia a Dio», disse il papa, « che dopo il corso di più
di diciotto secoli dalla fondazione della Chiesa abbiamo un parroco
santo»). Il 25 marzo 1895 Leone XIII, firmò il decreto sulle virtù
eroiche e sui miracoli, auspicando « non essere lontano il giorno in
cui 1’Italia avrebbe avuto un sublime esempio di parroco proposto al
clero secolare».
Il 5 ottobre 1963, Paolo VI approvava il decreto che riconosceva i due
miracoli attribuiti all’intercessione di Vincenzo Romano e il 17
novembre 1963 lo dichiarava beato. Il suo corpo riposa nella basilica
pontificia di Santa Croce, dove, 1’l 1 novembre 1990 si e recato a
venerarlo Giovanni Paolo II durante la sua visita pastorale alla Chiesa
di Napoli. A distanza di un secolo e mezzo la popolazione torrese ne
conserva ancora vivissima la memoria e attende di vedere salire il suo
umile pastore agli onori dell’altare, rinnovando i voti espressi da
Paolo VI: «Dio onnipotente voglia glorificare solennemente il beato
Vincenzo Romano con l’aureola della santità, perché con la
glorificazione del nostro preposito, di un parroco italiano, gioiranno
non soltanto i nostri pastori, che cosi alacremente e con sacrificio
lavorano, ma i fedeli tutti della nostra bella Italia».

Il supportico
Pascopia che il Parroco
percorreva per raggiungere S. Croce
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