SE GUTENBERG
NON FOSSE NATO
Certamente, se Gutenberg non fosse nato, per certi
versi l’umanità non sarebbe stata coinvolta nelle maglie di
quella rete inesplicabile della cultura dotta, che rimpinza, per
dirla in tono arcaico, persino i poveri cerebri dei pitocchi. La
cultura, con le sue aporie e i suoi macchinismi cogitali ha turbato
il sonno finanche ai poveri cristi. I barboni talvolta diventano
barbassori, i coltivatori diretti culturalisti, con almeno un figlio
prete o avvocato. Ma il se,
come si e soliti dire, non ha fatto mai storia, cosi, quel figlio di
una buona tedesca, Gutenberg, scoperchiò la
fissione dell’alfabeto. Mettiamo, per, che la fotografia fosse
stata scoperta nel XV secolo, si sarebbe subito utilizzata la
sostanza sensibile alla luce onde sperimentare 1’incisione
agevolata e ripetitiva, in pratica il
clichè, e provveduto, quindi, a celerizzare il lavoro
xilografico, calcografico e via dicendo. Il teutonico, ochi per
esso, avrebbe, forse, riprodotto le pagine dei codici amanuensi
nella loro scrittura originale con la riproduzione anastatica,
invece che con i caratteri mobili, evitando, in questo modo, di
sentirsi rimbrottare continuamente che i libri stampati con i suoi
diabolici bastoncini di piombo fossero, in definitiva, null’altro
che delle fallaci contraffazioni dei codex. E dal momento che
l’orefice sperimentava i caratteri con i testi di moda, quelli
sacri, tanto per variare..., non avrebbe mai corso l’alea di una
condanna per eresia, stregoneria o che dir si voglia, rischiando di
finire arrostito sul rogo dal Tribunale del Santo Uffizio.
Ciò non avvenne perché, tutto sommato, ai monaci amanuensi, oziosi
e sbuccioni per seconda vocazione, faceva comodo che qualcuno,
finalmente, smaltisse loro un po’ di fatica, anche se dietro
artifici dissacratori... Ma, come mai si continuava ad usare i
caratteri mobili anche dopo la effettiva scoperta delle prime
dagherrotipie, quindi del clichè, avvenuta nel secolo scorso?
Intanto si colse a volo la scoperta zincografica per utilizzarla
come impareggiabile alternativa alle lente, laboriose e malagevoli
tecniche xilografiche e calcografiche.
Il clichè, come tutti i sistemi fototecnici
pre-fotocompositivi, risolveva il problema della riproduzione
anastatica, ma non quello della composizione di sana pianta detta
a caratteri mobili, anche
perché i caratteri mobili, rispetto alla calligrafia erano
ripetitivamente precisi e regolari. Il clichè, quindi,
miracoloso per la riproduzioni. di codex o di libri già stampati,
era disadatto per le opere inedite. Tanto più, in solco binario con
la fotomeccanica, l’invenzione di Gutemberg fu meccanizzata e resa
veloce da OTTMAR MERGENTHALER, il quale, nel 1883, ebbe la felice
idea di mettere a punto il prototipo definitivo della gia
parzialmente sperimentata compositrice automatica monolineare,
meglio nota col sostantivo Linotype. La disfatta, però, della geniale invenzione della stampa
a caratteri mobili non è da imputare alla fotomeccanica, né alla
stampa offset o .alla sua consorella rotocalco, tanto meno ai
sistemi dattiloscrivibili elettronici o meno, a pallina o a
margherita, ma al calcolatore elettronico, nella fattispecie
la fotocomposizione!
Se Gutemberg non fosse venuto alla luce probabilmente il clichè di
zinco avrebbe riprodotto i codex ottenendone la stampa veloce.
FIRMIN MILLOT sfruttò la fotografia per realizzare i suoi clichè.
Già nel 1850 incise la prima lastra di zinco tramite morsura di
acido nitrico, utilizzando la luce e un negativo fotografico che
fungeva da maschera sulla lastra sensibilizzata con una vernice
trattata. II clichè aveva emesso il primo vagito, ma non avrà
lunga vita. Caratteri automatizzati linotipici e clichè piani di
zinco hanno dominato 1’arte
nera fino alla metà del XX secolo. Le poche officine di alcune
Testate che ancora non si sono convertite alle nuove tecnologie
tuttora formano le pagine di giornale con piombo linotipico e clichè,
specie il giornalismo minore. (Oggi 2002 non più. N.d.r.). Ed è
proprio in questi vetusti opifici che si ascolta il rantolo letale
del piombo fuso. E’ proprio in questi nostalgici casermoni di
minuscoli soldatini di piombo che gli
anta di animo lirico e ispirato sentono salire il groppa alla
gola. Intanto la sgherra fototecnica, ormai computerizzata (sistema
a freddo, contrapposto al sistema a caldo del piombo
fuso) avanza con i cosiddetti passi da gigante, e, nella scorreria
impietosa, si modifica e migliora, solo ai fini produttivi,
naturalmente, requiando uno dei fattori fondamentali del lavoro
creati- vo e delle arti applicate tutte: la partecipazione emotiva,
il contatto epidermico, l’afflato diretto con la materia da
plasmare con le dita come l’artista con l’argilla. Il
sistema a freddo squassa la sua criniera reiterando di continuo
la fredda compiacenza delle vittorie, dove il traguardo del bottino
estorto, però, non alimenta che nuove bramosie e concupiscenze.
Antica stampa del fasmoso torchio
Se Gutenberg non fosse nato la cintura vesuviana non avrebbe neppure
beneficiato dei sostegni etici positivi che certamente si recuperano
dal groviglio di nodi della diffusione della cultura. Quale mestiere
avrebbero esercitato i nostri Vico, Croce e De Sanctis dietro la
consapevolezza che le loro analisi andavano. trascritte. in una o
due copie di codex, destinati al massimo ad arricchire le sontuose
ville vesuviane degli altoborghesi? Cosa avrebbero fatto i nostri.
Ferdinando Martello ed Emanuele Melisurgo se non fosse esistita la
vecchia partenopea tipografia
Flautina che stampava uno dei primi giornali umoristici della
storia, intorno alla meta del secolo scorso:
L’Arlecchino?. Fossilizzazioni borboniche avrebbero stagnato
il torpore di un popolo in perpetua precarietà, sempre dominato e
prevaricato dall’alto e dal basso. Sarebbe stato ancora
condizionato ad oziose controre nei dedali spagnoli, negli androni
sgraziati e disadorni dei centri storici di provincia, nell’acre
delle fatiscenze, là dove visi olivastri statuavano assisi, in
un’etra infestata da aculeati frugiferi (scusatemi i termini
dell’epoca).
Non si sarebbe diffuso, certo, alla fine del XIX secolo il famoso
Monsignor Perrelli, che dettava i primi veri spunti o sputi,
se più vi piace, polemici ed anticonformisti, in contrapposizione
ai millenni di oppressione stagnante, allineandosi ai grandi
riformatori del pensiero scientifico del secolo scorso, se Gutenberg
non fosse nato. E, d’altro canto, come si sarebbero diffusi gli
spunti de’ Il concetto
dell’angoscia di Kierkegaard o i
Tre saggi sulla sessualità di Freud, o ancora le crude,
assideranti “verità” dell’elegiaco
Leopardi o del caustico
Nietzsche? Insomma, come avremmo fatto a vivere ancora peggio
attraverso il doppiotaglio della conoscenza? Il vecchio saggio
napoletano diceva: chi capisce
patisce.
Se Gutenberg non fosse nato, Antonio Scarfoglio non avrebbe potuto
pubblicare il primo rotocalco d’Italia
Il Mattino Illustrato, del 1924, perché la moderna,
meccanizzata versione della vecchia calcografia, non avrebbe potuto
beneficiare della composizione alfabetica dei caratteri mobili. Se
quel calabrese di tedesco,
volitivo e testardo come tutte le persone geniali, non fosse
esistito, ce la saremmo sognata a Napoli la rinomata
Emeroteca Tucci e la
Biblioteca Nazionale ai Cavalli di Bronzo (Largo Castello) che
nacque con la raccolta farnesiana di Carlo III di Borbone e
arricchita con la fusione di altre biblioteche napoletane. (Non
tutti i campani sanno che si tratta di una delle più importanti
biblioteche d’Europa, dove è possibile osservare, oltre ai famosi
Papiri di Ercolano, incunaboli, manoscritti e codici miniati di
diversi orientamenti culturali). Grazie a Nonno Gutenberg la nostra
Napoli ha potuto sfoggiare anche le sue tradizioni culturali,
riallacciate anche alla vecchia Scuola Salernitana. |
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(Nota:
la parte aneddotica vesuviana relativa a Gutemberg e la cultura
dell'epoca va letta
nel contesto generale del libro integrale "Da Magonza..."
oppure nell'area dell'estrapolazione aneddotica, vedi HOME
Prova di stampa della famosa Bibbia dalle
42 linee
MA
GUTENBERG FU
Ora soffermiamoci un tantino sulla nascita della
stampa a caratteri mobili. JOHAN GENSFLEISH GUTENBERG, nato nel
1394?, sperimentò il sistema per moltiplicare gli scritti in un
tempo di gran lunga inferiore a quello impiegato dagli amanuensi.
Come ho già accennato, sebbene i caratteri di piombo fossero più
simmetrici e regolari tra loro, quindi più gradevoli e facili da
leggere rispetto alla scrittura manuale, lo stesso Gutenberg
definiva i suoi libri «scripture artificialiter». Come
informano diverse attendibili fonti, senza voler togliere nulla ai
tedeschi, l’orefice non fu l’inventore della stampa in assoluto,
ma essenzialmente il più accanito e costante sperimentatore dei
caratteri mobili e del torchio da stampa ricavato, sembra, da un
torchio da vino. Sarà per invidia, sarà perché al mondo è
difficile che qualcuno si faccia i cavoli propri, alcuni pedanti e
zelantoni affermano che il teutonico (uso questo termine
nell’accezione di: preciso e tenace, non in senso dispregiativo,
amo nonno Gutemberg) si avvalse di esperienze analoghe già
praticate in tutto il mondo e in ogni tempo. In quel periodo sembra
abbiano tentato esperimenti equivalenti: PANFILO CASTALDI di Feltre,
il fiorentino BERNARO CENNINI, il tedesco LAURENT COSTER, e via
dicendo. Con molta probabilità era già esistente lo spionaggio
industriale, attività difficile e perigliosa, perché le delazioni,
come per i ladri in Oriente, venivano castigate con l’amputazione
di un arto. E... ora sto sbellicandomi dalle risate all’idea che
tali estreme sanzioni fossero comminate oggi in Campania e anche
altrove, d’altra parte,... sai quanti moncherini si vedrebbero in
giro.
La stampa a caratteri mobili in pieno Rinascimento fu subito
conosciuta in tutto il mondo occidentale, ma ricevette,
all’inizio, solo parziali consensi. E’ strano constatare che una
tipografia cinque-seicentesca, anche la più importante, non avesse
altra attrezzatura che una esigua scorta di caratteri, un modesto
torchio da vino modificato, dei compositori più o meno incerti e
dei robusti torcolieri.
Ed io, tapino e modesto bottegaio, nell’ottica del capitalismo,
con il ginepraio di arnesi usati e la varietà di risoluzioni
tecniche adoperate o inventate, cosa potevo rappresentare allora? Le
officine Mondadori? Ho senza dubbio sbagliato epoca per mettermi a
fare il tipografo nella
bottega-bazar di Via Purgatorio. Ché, poi, questa Via
Purgatorio suggerisce sempre tono di dileggio alle verbalità
telefoniche dei fornitori per arti grafiche irriducibilmente e
irrimediabilmente milanesi. Ma andiamo avanti. I tipografi di allora
(voci di corridoio) erano gelosissimi dei propri caratteri, (come se
adesso non lo fossero) Li custodivano come reliquie, e pure adesso,
poco ci manca, a parte alcuni tipografi sciagurati di mia
conoscenza, che fanno una tale bruzzaglia o
mmescafrancesca e ’nfranzesaggine, per dirla in gergo, che, sempre per dirla a modo
nostro, il Padreterno ne vuole
il cuore.
Si dice che allora la fusione dei caratteri avvenisse manualmente,
attraverso arnesi rudimentali autofabbricati. Proprio come accade
oggi da noi per attuare soluzioni ottenibili, invece, con
zuppe sostanziose, alla milanese... Adesso capisco perché
dicono che siamo arretrati di cinque secoli. Il torchio da stampa,
dopo aver spremuto anni ed anni vino, indossava la marsina o il
pastrano e si dava alle lettere. Il famoso mezzo di stampa, a parte le freddure da
goliardo, ebbe lunga vita. Era costituito da una base molto pesante,
dal piano portaforme (dove veniva inserita la composizione, cioè i
caratteri allineati in righi uguali), e dalla grossa vite che veniva
manovrata da una leva, il cui movimento permetteva al piano di
pressione superiore di abbassarsi dolcemente, ma con tutto il suo
peso, sulla carta inumidita, poggiata sui caratteri preventivamente
inchiostrati, del piano inferiore. I rulli erano di cuoio.
Pare, pero, che in quel periodo le madri degli inventori prendessero
la pillola, o comunque adoperassero anticoncezionali molto efficaci,
dal momento che il travaglioso
torchio, come direbbero i siculi, fu impiegato per oltre trecento
anni. I primi libri stampati, com’è noto, vengono detti
incunaboli (in culla). Il periodo degli incunaboli va dall’inizio
della scoperta della stampa fino alla meta del diciottesimo secolo.
Fu un periodo duro per l’affermazione della stampa. Un giorno i
tipografi scesero in piazza insieme ad una sorta di rappresentanti
di categoria, postulando che bisognava smetterla, una buona volta,
di ritenere il libro stampato una contraffazione. Infatti, nei
giorni seguenti, gli incisori di matrici (poiché la petizione era
stata respinta a suon di carciofi e cavolfiori, dai monaci che
minacciavano scomuniche in tono sussiegoso e perentorio) non si
risparmiavano nessuno sforzo non già allo scopo di creare caratteri
ripetitivamente uguali e perfetti, ma irregolari ed il più
possibile fedeli alla scrittura manuale. Ma guarda le fisime dei
conservatori! Solo molto tardi la stampa fu riconosciuta, non solo
come invenzione utile, ma come moderna forma d’arte. I caratteri,
cosi, presero il sopravvento sulla scrittura manuale. Un po’ come
fanno molte mogli dopo i primi anni di matrimonio.
All’origine i libri avevano un aspetto molto diverso da quello
d’oggi. La carta, ad esempio, spesso conservava il suo aspetto
ondulato a causa delle bagnature sulla parte posteriore, onde
favorire il contatto del foglio con i caratteri. Veniva lasciato
molto margine intorno allo scritto e soprattutto il libro se
richiesto rilegato dal cliente era consegnato intonso. Gli
incunaboli non avevano le pagine numerate, né rontespizio, né
soscrizione o colophon,
come dicono all’estero. Si dice che la massima tiratura. non
superasse le duecento copie. (Come avranno fatto a contare - tutte
le tirature di allora?). Mah, questi storici e filologi, faranno
come gli amanuensi, di tanto in tanto qualcosa se la inventano, Ma
andiamo avanti.
Verso la fine del 1500 si ebbe la prima fioritura della nuova
scoperta. Gli studiosi, fedelmente o meno, ci ricordano che agli
albori del 1600 si contavano in Italia ben 150 tipografie. (Oggi
manca poco che si contano nella mia piccola Torre del Greco). Ma,
bando alle ciance. La capitale del libro fu Napoli... Domando: fu
Napoli? Pare proprio di no, purtroppo.. (Fosse mai stata la capitale
di qualcosa). Fu la languida Venezia. Il maggiore prototipografo
italiano fu ALDO MANUZIO. Egli si può considerare il padre
dell’editoria italiana. A libro affermato i prototipografi avevano
più fans degli autori di libri. Manuzio produsse molti esti
classici aumentando la tiratura da duecento a mille copie. (Ci
crediamo?). Con molta probabilità nelle vene di quell’uomo dovera
scorrere sangue milanese o giapponese, perché aveva davvero il
cosiddetto bernoccolo degli affari. Avvalendosi della locuzione:
Carmina non dant panem, la
modificò n: Imprimer carmina
dant panem, e non andava errato. Fu lideatore, in nuce, tanto
per stare in tema di latino, di ciò che oggi chiamiamo le collane economiche. Ne produsse una gran quantità (saggiamente non
ci affermano quante) il cui basso costo favoriva la diffusione. Si
dice ancora che Aldo Manuzio avesse una particolare sensibilità
artistica, cosa raramente presente in chi ha molto fiuto per il
danaro. Penso di condensare gli scritti per economizzare carta e
inchiostro e per rendere i libri più maneggevoli ma nello stesso
tempo non trascurò di offrire una lettura gradevole, per questo si
fece disegnare da FRANCESCO GRIFFI il famoso corsivo detto appunto
delle edizioni aldine. Il corsivo, in genere, viene detto
anche italico
dai fabbricanti internazionali di macchine da scrivere con
riferimento al carattere di Griffi. L’arte della stampa si affermòmano
mano non solo in Italia, ma in tutto il mondo occidentale. Nel 1700
emigrò oltreoceano.
Nel Nuovo Mondo ne fu pioniere BENIAMINO FRANKLIN di Boston, che
fondò inoltre una cartiera, una grande biblioteca, e stampò la
Pennsylvania Gazetz, il primo giornale americano, e scusatelo se fu
poco. I plutocrati sono sempre esistiti, non mi spiego, però, come
mai, i Berlusconi e gli Agnelli non nascano mai a Napoli. Nello
stivale le tipografie si diffusero in modo sorprendente, non certo
nella misura in cui si sono diffuse in Campania ai giorni nostri. Ma
in entrambi i casi, oggi come allora, si verifica il fenomeno del
regresso qualitativo per motivi di concorrenza. |