Vesuviano. Il tripudio della gente semplice si
manifesta in quelle lunghe ore di abbandono epicureo dove il luculliano
è bazzecola; dove le crisi bulimiche quali smodate voracità d’affetti,
si materializzano, come dire, nella crapula e nel cioncare. Agape mistica, orgia
dionisiaca e Convivio dantesco sono tutt’uno. Al culto gastroenterico
nessun circumvesuviano è dissidente, neppure l’intellettuale di grido.
Anzi. L’alfabeto immortala su partecipazioni, annunci ed inviti la
legittimità caratteriale partenopea dell’appagamento mistico,
spirituale e metabolico. Documenti che simboleggiano il tripudio delle
feste delle unioni (anche se un po’ precarie, dopo); delle nascite
(anche se non tutte legittime); e purtroppo delle estinzioni, la cui
liceità e inopinabile, tranne, talvolta, durante le consultazioni
elettorali... E a proposito della morte, l’alfabeto è lo strumento che più di tutti
da la idea dell’immortalità dello spirito umano. All’ombra del
Vesuvio, però, il thanatos freudiano, la morte
viene sempre esorcizzata sotto un travestimento faceto. In quei centri
vesuviani con un reddito (sperequato) superiore alla media nazionale
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la morte e una trovata da propaganda religiosa, è,
cioè, il sonno quando si è scocciato di ridestarsi. Torre del Greco è
in
declivio alle falde del Vesuvio prospicienti il Tirreno. Essa è compresa
da nord a sud tra Ercolano e Pompei e da est ad ovest dal cratere al
cimitero, sul mare. Ho dato priorità al camposanto rispetto la costa
perché la cittadina ha una positura geografica, come dire, necrostorica,
non già a causa delle ecatombe degli stermini vesuviani, ma perché il
mio popolo è uno dei pochi a custodire così bene la concezione
egittologica del trapasso, sebbene qualcuno si ostina a guardare i
cimiteri come materia promozionale relativa alla propaganda religiosa:
un reiterare costante, in pratica, del
memento mori. «Sono di più le
scese o le sagliute?» farfuglio un marmocchio col viso impiastricciato di
cippa e di moccio, affacciato all’uscio della mia bottega di Via
Purgatorio. Il moccioso sciolse una smorfia di gaudio quando io gli
risposi che non vi era differenza fra i due dati topografici.
Ce
sta ’na scesa ’e cchiù –
bofonchio quegli – chella d’
’o cimitero, quanno ’a scinne nue ’a saglie cchiù».
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