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Con la tradizione artigiana in crisi, in passato così connessa e amalgamata nel costume del popolo partenopeo, insieme all’acutizzarsi della crisi esistenziale individuale dell’uomo, si dissolvono tutte quelle forme comportamentali di socievolezza, solidarietà, altruismo, in una frase, quelle di un popolo d’amore, per dirla con Luciano De Crescenzo. Napoli perde il candore di una volta. Il cittadino vesuviano diventa adulto, perde 1’immaturità e la salutare incoscienza del passato che lo faceva guappo d’onore o santo. Si avvicina alla teoria dello struzzo, assume sembianze megametropolitane, si allontana dall’idea di Dio dentro l’uomo, della sua enorme potenzialità d’amore. Non disdegna i tabernacoli solo perché apotropaici e, per la prima volta nella storia, resta obnubilato innanzi alla sua stessa paura. Sente 1’angoscia del suo nuovo ruolo di pedina venduta al progresso che offre solo ideali effimeri e precari. Non spera più nella libertà, che esclude il bisogno né di comandare, né di obbedire. Dimentica di lasciare in pace se stesso, che è l’unica maniera per lasciare in pace gli altri. Oblìa il sesso come puro atto

d’amore, pur se lo ripete dieci, cento, mille volte, nella sua foga passionale di meridionale virile. Egli inizia a mitizzare i plutocrati ed i tesaurizzatori e come loro incomincia a nutrire qualche sospetto sulla propria atavica virilità, dietro il cogitare freddo dei dottrinarismi divulgati. Nelle vecchie botteghe tipografiche cupe e fuligginose, spopolate e decadute, io vedo la napoletanità e la vecchia Città-regno che muoiono nella loro oleografia più autentica e palpitante in quel sincretismo di povertà e gioia di vivere. L’adolescenza, nella terra vesuviana d’oggi, prostrata anch’essa sotto gli ideali effimeri dello sport mitizzato e della musica importata, (certa di genere paranoicale), quale coerente colonna sonora delle nevrosi, è trasformata nei romantici congeniali turbamenti post-puberali, dietro una precoce problematica esistenziale. Dov’e finita la confusione faccendiera urbana della mia Torre del Greco, distrutta dal Vesuvio e ricostruita diecine di volte, attingibile dalla letteratura d’arte e d’informazione post-bellica? E prima di proseguire in questo stralcio di sapore retorico rispondo alle smorfie rinitiche di qualche progressista. Qui non se