Torre e il corallo     pag. 11 di 17

Anche altrove, a Genova in particolare, esistevano enormi quantitativi di «Sciacca», i cui possessori non potevano fare buona accoglienza al prodotto concorrente. Tra questi vi era Costa, tenuto al corrente dell’evoluzione dei fatti dal solito Luigi Noto, che il 3 settembre 1902 gli riferiva: «Ora che vi scrivo vi do a sapere che un mio genero che fa da capo fabbrica dal signor Bartolomeo Mazza, ha fatto stamane vacanza perché sono andati a ritirare venti casse arrivate dal Giappone. Vi faro sapere la qualità». Infatti il giorno 8 dello stesso mese proseguiva: « La roba che ce ne parlai nella mia scorsa lettera del signor Mazza del Giappone e tutta colorita.
A questo sono arrivati i Castelgenovesi e hanno rifiutato le cannettiglie di Sciacca perché piccole e hanno comprato tutto il giapponese perché dovete sapere che rende di più».
Pur «rendendo di più» e da presumere che quel corallo, tanto difforme dal nostro nelle caratteristiche, inizialmente presentasse ignote e non lievi difficoltà ai nostri lavoranti, i quali, comunque, le superarono molto brillantemente. Certo e che la loro bravura e fantasia fecero si che i nostri prodotti, dalla semplice collana al più elaborato monile inciso, si diffondessero in tutta Europa e, forse ancor più, in America.
A questa divulgazione contribuirono i molti commercianti che da Torre
si trasferirono all’estero aprendovi filiali e negozi al dettaglio. A Calcutta operarono, oltre ai vari Mazza (Bartolomeo, Mattia, Leonardo) anche Sebastiano Palomba; a Vienna i fratelli Vitiello, Luigi Villani («Zicacocco»), Onofrio Accardo, Giuseppe Carbone; a Londra Andrea Borrelli, Michele De Simone (« Vecchiarella »); in Australia ed in Francia si trasferirono, rispettivamente, un altro Michele De Simone (detto «Casardo») e Vincenzo Rivieccio.
Più numerosi furono quelli che preferirono gli Stati Uniti: Giuseppe Benefico, Vin- cenzo Onorato e fratelli, Giuseppe D’Elia, un altro Bartolomeo Mazza, Giovanni Del Gatto, Michele De Dilectis (« Can’ ’e pecora»), mentre la ditta « Borrelli & Vitelli» apriva una sede a New York dopo averne già allestita una a Parigi. La « internazionalità», per cosi dire, datasi da molte aziende torresi richiese anche una più accurata organizzazione che, se inizialmente fu limitata solo a poche, in seguito si estese a tutte le imprese interessate all’attività. Ad esempio, troviamo che nel 1906 la «Giuseppe D’Elia» disponeva di carta intestata con diciture tutte in tedesco; la menzionata «Borrelli & Vitelli» alla denominazione sociale aggiungeva «con sedi a Parigi e New York».
Con ciò non vogliamo certamente dire che tutte le attenzioni dei Torresi fossero concentrate sul corallo «giapponese», perché vi fu anche chi continuo a dedicarsi molto attivamente al nostrano ed a quello delle coste africane. Infatti, per meglio commerciarlo, si trasferirono in Algeria Francesco Borrelli («don Ciccio Culera»), i fratelli di Rosa, Aniello Mazza (nonno del futuro deputato al Parla- mento on.le Crescenzo Mazza). In sintesi, dobbiamo proprio dire che tra la fine dell’800 ed i primi del ’900 i Torresi certo non dormivano, e tantomeno i molti incisori che con la loro sensibilità artistica, ma anche con la preparazione tecnica, contribuirono a procurare fama e notorietà ai nostri manufatti.

 

              Laboratorio della G. Ascione 1927.
           Una delle più antiche fabbriche torresi
                   per la lavorazione del corallo

I più importanti furono Antonio Giansanti, ritrattista; Pasquale Carmosino (detto «Pasqualone»), primo a incidere con vera arte il corallo «giapponese», Luigi Vigorito, Domenico Bossa, Domenico Porzio (allievo del Morelli) che creo il «Liberty» sui cammei; Arcangelo Fiorillo, specialista di soggetti mitologici. Di Carmine Ascione e di Francesco Petrucci (Cap’ ’e cavallo), i «maestri dei fiori», erano inimitabili, rispettivamente, le rose e le dalie; Giuseppe Pontillo, invece, riproduceva maschere e puttini con stile del tutto eccezionale.
Vi fu anche chi si specializzò in altre lavorazioni del «liscio», diverse ma non meno difficili di quelle dell’«inciso». Ad esempio, la famiglia D’Elia era specialista della «brillantatura» o «faccettatura» del corallo, che esercitò fino ai primi del ’900; poi, con la scomparsa di « Ninnu capillaro » (cioè Giuseppe, padre di Alfonso ed Enrico D’Elia) scomparve anche questa bellissima produzione. Tra la fine dell’800 e sino agli «anni 40» troviamo uomini che della lavorazione del liscio fecero un’arte degna della massima ammirazione. Essi per il corallo «sentivano» qualcosa di diverso, in particolare per quello ancora misterioso «giapponese», del quale vollero sconfiggere tutte le ostilità.
Vincenzo Porzio «Ciricicco», Aniello Onorato e poi il nipote Raffaele (ambedue soprannominati «’a Cinicola »), Stanislao Betrò « Staniso », Giuseppe Petrucci (come il nonno Francesco detto « Cap’ ’e cavallo »), Ciro di Donna, Vincenzo Liverino: dalle mani di questi «artisti del liscio » un grezzo di «Moro» o di «Boke» si trasformava in un manufatto di ineguagliabile bellezza e perfezione. Dopo di essi, vissuti in differenti epoche, abbiamo avuto decenni di vuoto; il filo che fino a qualche anno fa ci ricollegava alla bravura del passato e rappresentato dai valenti Antonino Ostiero («’a Catrammella»), Gaetano Cervasio («Tarallo») ed il più giovane Giovanni Fioravante. E dopo? Forse assisteremo alla fine dell’«arte del liscio». Quando, poi, ne sarà evidente 1’importanza probabilmente non avremo alcun maestro che possa insegnare, con amore e passione, come va eseguita una mandorla, una goccia, una spola o una sfera di corallo, perché risulti una perfetta, lucente opera d’arte. Di questi specialisti del liscio, di ieri e di oggi, bisogna dire che i risultati ottenuti non erano dovuti solo all’impegno e alla pazienza con cui avevano acquisito quella rara abilita, ma anche ad un «intuito» di cui non tutti coloro che trattano la nostra materia sono, purtroppo, dotati.