pag. 14 Il Treno 8017

 Balvano, 03 marzo 1944

30  morti  torresi

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La Testimonianza di un Nipote.

 

 

Roma. 03 marzo 2002.  

 

Oggi ricorre l'anniversario del disastro ferroviario del '44 in cui morirono oltre 600 persone. E ancora ci sono dubbi sulle responsabilità. Colpa degli americani che sovraccaricarono il treno o inevitabile fato?

 

 Una tragedia dimenticata e che per molti non ha ancora una spiegazione. Oggi è l'anniversario di uno dei più gravi incidenti della storia ferroviaria d'Italia eppure ancora non si riesce a individuare un responsabile certo per quanto accaduto all'espresso 8017 nella tratta Napoli-Potenza, nella galleria di Balvano, alle prime ore del mattino del 3 marzo 1944. L'unico dato certo, dopo 57 anni, sono le 526 persone morte per aver respirato i gas venefici della vecchia locomotiva a vapore, rimasta bloccata nel tratto in salita, poco prima dell'arrivo alla stazione del paesino della Basilicata. Tutto il resto è un interrogativo senza risposta. Una congettura carica di dolore su cui si possono al massimo lambiccare gli storici interessati.

Secondo quanto scriveva "Il Giornale del Sud", martedì 7 marzo la causa di tutto è da attribuire al gran numero di clandestini che avevano preso d'assalto quello strano convoglio, con dodici vagoni a carico normale e 33 ufficialmente vuoti. Ma non sembra così certa questa verità. Più di uno tra i superstiti parlò chiaramente di ordini dati dai soldati americani di aggiungere vagoni in almeno quattro stazioni intermedie. Così da allungare, in modo innaturale, la sequenza di carrozze. E si aggiunge subito dopo altre domande: possibile che i macchinisti non si rendessero conto di creare una camera a gas? E se sì, perché continuarono ad alimentare le caldaie?

 

A partire da questi interrogativi Gennaro Francione, giudice e scrittore, ha costruito un romanzo dal sapore d'inchiesta, "molto intriso di ricordi", Calabuscia, (pronuncia càlabbusc(ia), dall'americano "calaboose", prigione)

E' la storia semplice e pulita di donna Giulia (la nonna di Francione) che faceva da corriere per il ricco mercato nero partenopeo e che prendeva spesso quel treno. "Era una signora eccezionale, con un grande coraggio. In un periodo tanto difficile riuscì a procurare il mangiare per i suoi figli e ad essere punto di riferimento per tutte le persone che la conoscevano. In calce al mio libro invito tutti coloro che sono in grado di riferire su questo tragico fatto con ricordi, testimonianze di scrivere alla redazione che provvederà a stilare un libro bianco. Purtroppo l'oblio però rischia di mangiarsi la memoria e di far scomparire questa ferita tutta italiana".

L'ossido di carbonio uccide, secondo i manuali, in cinquanta o sessanta secondi eppure non c'è ricordo di allarmi o di allerta. I primi soccorritori si trovarono di fronte allo spettacolo allucinante di una massa compatta di corpi l'uno sopra all'altro. "Sulle prime nei vagoni - si legge nel romanzo - tutti i passeggeri si sono accorti che il convoglio si è fermato e sono inquieti, anche se non sanno bene cosa stia succedendo. Nell'oscurità totale degli antri metallici ricolmi di uomini e cose volano borbottii, commenti,lamenti, bestemmie. 

Solo alla fine, quando il fumo invade l'ambiente in maniera sempre più fitta e la gente prende a tossicchiare, il panico comincia a diffondersi, anche se ancora nessuno osa muoversi. Il non sapere cosa stia succedendo impedisce d'intuire il cosa fare". E' l'inattività fatale.

"Spero che un giorno venga sollevato il velo - conclude Francione - su un fatto tanto grave. E forse alle famiglie delle vittime dopo tanto tempo basterebbe che le Ferrovie e il ministero della Difesa deponessero un mazzo di fiori. Basterebbe quello".

 

Roma, 03 marzo 2002.

 Simone Navarra.



Treno a vapore

Il verro di Baragiano

di Gennaro Francione

Il romanzo Il verro di Baragiano ha vinto il 1° premio della sezione Narrativa del concorso letterario Il Telescopio.

Il racconto è tratto dal romanzo Calabuscia: (La fuga dopo l'armistizio lungo tutto la penisola di due napoletani, padre e figlio, alla ricerca di una salvezza che si rivela una mera chimera. La vita è un'eterna Calabuscia, una gabbia.

Dopo che miracolosamente un'intera famiglia è uscita intatta dalla guerra, nel sud liberato accade la tragedia che uccide nonna Giulia)

- Aetas Internazionale - Roma, ottobre 1994.

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Prima parte (da Zeus n° 51 - Aprile 2001)

 

Così va l'Italia in guerra. Si dibatte come un serpe colpito a morte per cercare con guizzi finali di risorgere e scampare alla tragedia finale che si annida passo dopo passo.

Intanto dopo un gelido febbraio il paesaggio sembra ridestarsi, con le prime forme floreali colorate pronte a dare i primi spruzzi della nuova gioia solare.

In questo tempo, quando gli uccelli tornano sui tetti delle case crollate a cantare il loro canto di rinascita, mia madre viene ancora e se ne va. Una sera, una maledetta sera, una come tante, donna Giulia parte per non fare più ritorno. Tutto è accaduto.

Oggi è venerdì 3 marzo. Donna Giulia sarebbe dovuta partire ieri per Baragiano, ma un negozio era sfornito di biancheria, per cui ha dovuto rimandare a oggi la partenza.

Papà l'accompagnerà. Per questo stamattina vado da solo a lavorare al porto e già nella pallida luce dell'alba bacio mia madre che fa capolino tra i cuscini, sussurrandole: "Mammà, ve voglio tanto bbene!"

"Pur'io figlio mio! Và và, ce vedimmo tra quinnece juorne!"

A queste parole dal lettone si leva la mano di papà che mi carezza tra i capelli, bisbigliandomi con la voce impastata di sonno: "Ce vedimmo stasera Vicié. Bona jurnata!"

Li bacio tutti e due, i miei amati, e volo via. Mentre il tram sferragliando avanza verso Napoli, fermando a ogni stazione per prendere gli assonnati lavoranti, sono immerso tra immagini oniriche e pensieri strani.

Talora apro gli occhi e mi lascio abbagliare dall'alba che là fuori è chiara chiara.

Sembra proprio che oggi sarà bello. E infatti quando le ore del giorno si affacciano sul porto, dopo che già ho cominciato a scaricare da una nave, il mondo è inondato da un tempo che di prima mattina è decisamente uno schianto. Ha cominciato con una gran sole che spaccava le pietre e l'aria tiepida come se si fosse a maggio. Poi in coperta, mentre trascino casse di liquori, qualcosa cambia.

Vedo l'aria invasa da stormi di gabbiani che gracchiano come impazziti e, a questo sinistro presagio, si aggiunge laggiù, oltre il faro, una massa di nuvolaglia scura e minacciosa.

Improvvisamente si leva un gran vento di mare e provoca ondate talmente forti che la nave su cui sto lavorando sbatte furiosamente contro il molo, e quasi sembra che voglia spezzare gli ormeggi.

Tutto questo ribaltamento della natura mi dà un senso d'inquietudine crescente, che cerco invano di spiegare col fatto in sé della repentina bufera. Presto saprò cosa ho letto nello scatenarsi degli elementi sulla mia testa. Da questo momento come in un incubo ricostruisco, volando simile a un fantasma sugli avvenimenti cui non ho partecipato in prima persona, tutto quanto è accaduto.

È quasi l'una. Don Gennaro e la moglie reggendo le mappate di cose scendono dal tram.

Facendosi strada tra il diluvio d'acqua che si sta abbattendo sulla città, corrono per quello che possono con tutto quel carico ed entrano trafelati nella stazione di Napoli.

Don Gennaro è intriso d'acqua comm' a nu purpetiell' e va bestemmiando: "Mannaggia 'o pataturco! Isso e ll'acqua!"

Mia madre si è coperta bene con il lenzuolone imbottito di biancheria che ha messo sulla testa, e ha subìto meno danni.

Il treno sta appena appena per partire. Lo vedono laggiù col capotreno che già serra alcune porte.

"Curre Giulia! Curre!" fa papà, tirandole via anche l'ultima mappata di roba e lasciando che la compagna corra verso l'ultimo carro merci, dove alcune mani si protendono ad aiutare il passeggero ritardatario. Arrancando con le sacche che lo sballonzolano di qua e di là, e che sono tante da farlo sembrar avere non due ma cento mani, trafelato arriva anch'egli sotto il treno col capotreno che invita: "Ampressa, facite ampressa!".

Mammà da là sopra aiuta papà a scaricare la roba all'interno del convoglio. Indi anche lui si arrampica ed entra. Ha ancora il tempo di aiutarla a sistemarsi in un posto libero tra il fieno, facendosi strada tra la ressa di viaggiatori accaldati e puzzolenti per accalcare la roba in un angolo.

Fiii, fiii! È il fischio del capotreno che assale l'alzata dell'ultimo carico, tanto che donna Giulia invoca: "Gennà fa' subbeto! Ca 'o treno parte!" "Vaco, vaco".

Mio padre getta le braccia al collo di mamma la bacia, la stringe, scappa via, e salta giù che già il treno comincia a muoversi. Poi da laggiù prende a salutarla e a lanciarle un bacio nascosto, mentre lei sporgendosi dalla porta con gli occhi lucidi agita, in mezzo a mille altri mani vorticanti, il fazzoletto del giorno delle nozze.

Ciuf, ciuf, ciuf. La locomotiva a carbone ansimando trascina il pesante convoglio sul binario e lancia il suo fumo che penetra acre nei carri merci, andando a infilarsi negli spazi d'aria liberi lasciati dai nugoli di viaggiatori. Si tratta di maschi adulti, ma soprattutto di donne, vecchi, bambini con accanto i loro mucchietti di cose personali o da contrabbandare. Ancora il destino tesse le fila dei poveri mortali. Questo treno, uno dei pochi messi a disposizione dei civili, segue la routine e viene sovraccaricato per le necessità del trasporto militare. Come se non bastasse il peso già eccessivo di cose, mezzi bellici e uomini, a Salerno vengono aggiunti altri carri merci al convoglio, alcuni anch'essi ricolmi di passeggeri.

A seguito di queste manovre la carrozza di mia madre che fortunatamente per il ritardo era l'ultima diventa centrale.

Donna Giulia pensa al marito, a me, al giorno in cui tutta la famiglia si riunirà a Torre e quando assiste all'aggiunta di vagoni quasi ringrazia il Signore. Stando al centro potrà scendere a Potenza sulla banchina, e con tutta quella roba ingombrante e pesante non dovrà fare un lungo tratto a piedi sui binari. Ahimè cara mamma come le cose s'intrecciano in assurdi grovigli per cui, come il tempo di marzo, tutto si trasforma repentinamente, il male in bene e il bene in male.

Tutto quello che era scritto accade nella galleria di Balvano.

Là si ferma il treno, nel buio della notte che è ancora più cupa nel tunnel della morte eterna.

La locomotiva allo stremo si arresta per l'eccessiva zavorra di uomini e cose trasportate, che impedisce di montare in salita. Il fuochista, in minuti di follia che coinvolge anche il macchinista, non fa che alimentare il mostro infernale, il quale invece di sprizzare energia continua a sputare fuoco e fumo tanto da invadere sempre più la galleria.

Sulle prime nei vagoni tutti i passeggeri si sono accorti che il convoglio si è fermato e sono inquieti, anche se non sanno bene cosa stia succedendo.

Nell'oscurità totale degli antri metallici ricolmi di uomini e cose volano borbottii, commenti, lamenti, bestemmie.

Solo alla fine, quando il fumo invade l'ambiente in maniera sempre più fitta e la gente prende a tossicchiare, il panico comincia a diffondersi, anche se ancora nessuno osa muoversi. Il non sapere cosa stia succedendo impedisce d'intuire il cosa fare.

Giulia nel suo cantuccio si afferra al fazzoletto e lo stringe alla bocca fino a farsi male, mentre tra sé e sé barbuglia: "Madonna mia! Nun voglio murì! Damme a Gennaro ancora!" Le zaffate di fumo divengono sempre più spesse. Ora tutti tossiscono, le donne si disperano e gridano: "Ch' è succieso?" "Che sta venenno?" "Scappamme! Chist' è bbeleno!" urla alla fine un vecchio.

"Fuimme genta gè!" fa eco una popolana.

Come una valanga, sbraitando, spingendo, coi bambini piangenti che strillano nel buio "Oi mà! Mammà!", tutti si avviano verso il varco ligneo e si buttano giù.

Donna Giulia ha un attimo d'indecisione e si schiaccia contro la parete mentre bisbiglia: "'A rrobba!"

Svelta si accuccia per terra, ma invano si allunga cercando di aggrapparsi almeno al manico del sacco con la biancheria.

Viene subito travolta dalla massa e, sospinta via, cade giù dal treno, andando a finire su una pietra.

Con la gamba dolorante, con le labbra attaccate al fazzoletto, prende ad avanzare insieme agli altri che ora si sono sparpagliati in fila indiana. I giovani più veloci corrono avanti, ma molti di loro sono rallentati proprio per dare aiuto ai loro vecchi e ai bambini.

Si avanza al buio palpando con le mani ora il ferro freddo del convoglio ora il muro umido della galleria, mentre il fumo diventa sempre più intenso e acre e ha ormai completamente invaso lo spazio, che sembra, nello scurore immane, l'antro stesso dell'inferno.

Molta gente tossisce in rigurgiti sempre più spasmodici, e presto i primi fuggiaschi cominciano a cadere, sicché urlando e piombando giù quelli che vengono dietro si trovano innanzi, nuovi ostacoli, i corpi delle prime vittime asfissiate e falciate dai gas venefici. E allora nel contatto ecco elevarsi nuovi sinistri ululati di donne e pianti di bimbi.

Donna Giulia ha appena il tempo d'intravedere laggiù lontano uno spiraglio minuscolo macchiato da un raggio bluastro e di pensare: "Chella è a luna!", che piomba a terra in mezzo ad altri corpi per non più rialzarsi.

 

Dopo la galleria della strage c'è la stazione di Balvano. Là invano il capostazione e alcuni parenti di passeggeri stanno in attesa del treno notturno.

Quando il ritardo diventa preoccupante il dirigente fa scattare l'allarme e invia una locomotiva di soccorso.

Quale spettacolo orrendo si para innanzi agli occhi del macchinista! Davanti alla sua motrice spunta ancora fumante la testa del convoglio, sinistramente immota.

Sotto di lui sbucano da chissà dove i conducente del treno che, agitando le mani, gridano: "Aiutateci! È una tragedia!"

Sceso rapido con gli uomini del soccorso armati di torce, il macchinista, con l'aria che è tornata appena respirabile, li guida all'interno del tunnel, dove presto si parano davanti agli occhi, tra i fasci di luce, i nugoli di cadaveri riversi, anneriti, con le bocche spalancate alla vana estrema ricerca di quell'aria che non c'era più.

Molti, i più vecchi, neppure si sono mossi dai loro giacigli notturni sui convogli.

Li trovano là attaccati alle loro cose, immoti tra quella marea fuggiasca di commercianti di guerra, con la testa appoggiate ai loro lenzuoli, alle valigie, aggrappati alle cose della sopravvivenza nel baratto.

Che macabro spettacolo! Sono quasi tutti morti i passeggeri della miseria in quella grigia alba tra le montagne brulle. Solo quelli che, in coda, erano vicini all'uscita della galleria, sono riusciti a salvarsi.

Li trovano là fuori allo sbocco opposto della galleria urlanti, piangenti, con la bocca piena di parole di grazia ricevuta dalla Madonna e dal Signore.

 

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Seconda parte (da Zeus n° 52 - Maggio 2001)

 

Capite allora la mia rabbia, il mio dolore per un destino beffardo che pose mia madre prima in coda al convoglio, per poi farla ritornare al centro del treno maledetto?

Presto arrivano sul posto altri soccorsi. Accorrono i Carabinieri, ma anche volontari, venuti fuori dalla gente comune che è stata risvegliata dal suono sinistro delle campane, lanciato nel sinistro dilucolo da preti e sacrestani nelle un dì placide chiesette di campagna. Qualcuno ha temuto attonito un implausibile attacco aereo. Alla fine tutti si prodigano a recarsi sul luogo del disastro. Qui non rimane che attuare l'opera pietosa di ricaricare i nugoli di corpi sul treno della morte, che solo nell'alba avanzata viene trascinato come una lunga inesauribile bara nella stazione di Balvano.

 

Sulle ali di un vento che reca con sé ancora la puzza dei fumi e dei cadaveri arriva orrenda la notizia.

È la voce popolare che la trasmette, non la radio che tace, né i giornali che non ci sono ancora.

Come un seme una voce singola che avrà attinto la notizia dal posto della sciagura, ha cavalcato su un treno, su una corriera, su un tram arrivando infine a Napoli, dove il germe dell'informazione dilaga come la peste, arrivando a colpire i nostri orecchi e trafiggendo i nostri cuori.

"Sapite?" annuncia la gente. "S'è ffermato nu treno della linea Napoli-Potenza sotto 'a galleria 'e Balvano e so' morte 600 persone soffocate dai gas venefici".

600 persone. Maledizione! La mamma, dov'è la mamma? Si sarà salvata. Stiamo scaricando roba quando la notizia ci arriva.

Mio padre è pallido come un cencio; io mi sento quasi svenire. Don Gennaro va a parlare col marinaio americano, il quale gli dice con un gesto della mano contrito: "Oooh!go!go!". Poi papà mi viene accanto e con durezza, mentre lo fisso negli occhi come imbambolato, mi sussurra: "Vicié, mammete è bbiva! E' bbiva l'haje capito! L'avimme 'a credere...è bbiva!".

"Sì papà è bbiva...".

"Tu và a casa pe' oggi. Pensa a nonna e cunzulala si ha saputo 'a nutizia. O si no nun dicere niente. I' vaco a Balvano".

"Voglio venì pur'io".

"No, fa' cumme t'aggio ditto. Pens' 'a nonna. Pensa a faticà pe' cchelle povere creature che stanno sole a Baraggiano e hann' 'a mangià".

Si è controllato, ma ora non ce la fa più e gli vengono le lacrime. "Và Vicié, và".

Mi vede andar via e lui sta sul molo, piangente. Mi volto e sta ancora là. Procedo mi volto di nuovo e già lui si muove, ora, prima lento e poi a passo sempre più veloce. Su quel vento che ha portato la fera notizia vorrebbe volare per raggiungere la sorte della sua amata. Ed eccolo don Gennaro che con mezzi di fortuna: camion, macchine, carrette, il pomeriggio inoltrato è già alla stazioncina di Balvano. Nella saletta d'attesa c'è gente che piange, con urla strazianti, consolata da parenti e amici. Quando papà intravede i corpi ammassati sulla banchina, rigira la testa verso i vivi che operano poco distante. Sì, là vuole, là deve cercare perché Giulia "dev'essere viva"!

Corre verso i carabinieri che stanno stendendo i rapporti e chiede informazioni sui sopravvissuti: "S'è salvata na certa Giulia Francione?" chiede a un capitano dei militi, che controlla la scarna lista scuotendo la testa.

"Vedite bbuono capità..." insiste, cercando egli stesso di mettersi con la testa nel foglio per leggerci chissà cosa, egli che è semianalfabeta. L'altro lo fissa con tristezza, riprende a scorrere con cura la lista, indi rialza gli occhi e sussurra: "No, non c'è proprio. Mi dispiace...".

Con le spalle cascanti l'uomo di Torre si lascia indirizzare da quello sguardo velato dell'autorità e si avvia mogio mogio verso la zona della morte, seguito da un gruppo di giovani carabinieri.

Eccolo là ora accanto alle cataste di corpi.

I cadaveri sono stati ammassati a formare tre montagne, dividendo con gran coraggio le femmine dai maschi, distribuiti a loro volta in due mucchi per il loro maggior numero.

I militi invitano papà, com'essi fanno, a indossare una mascherina sulla bocca, indi lo aiutano a cercare naturalmente tra le donne, ma Giulia non si trova.

"Cercamme! Cercamme bbuono" fa ai giovani aiutanti che continuano a spostare corpi. L'operazione è lunga e dura una buona mezz'ora, ma Giulia non c'è proprio.

Per un attimo il volto gli si illumina: è possibile che si sia salvata. Ma allora dov'è?

"Nun ce sta! Nun ce sta! Fosse gghiuta 'o spitale?".

"È possibile" risponde un giovane con accento nordico. "Può darsi che è saltata nella lista perché l'hanno portata subito via".

Senza frapporre indugio papà esce dalla stazione e si porta direttamente dall'appuntato che coadiuva il capitano dirigente le operazioni. Ponendolo a parte del problema ottiene di essere portato immediatamente in caserma con la camionetta. Là s'incolla al graduato che s'è attaccato al telefono.   Chiamano due, tre, cinque ospedali della zona, compresi quelli di Potenza. Niente da fare... Di Giulia non c'è traccia. "Muglierema! Addò sta muglierema".

L'appuntato, un pagnottone dall'aria buona, si alza dal suo posto, depone la cornetta e prende per le spalle il pover'uomo suggerendogli con un sospiro: "Mi dispiace. Ma c'è un posto dove non avete ancora cercato".

"Addò..." soggiunge Gennaro terreo, fissando in quegli occhi grandi una luce di speranza che non c'è. "Tra i cadaveri dei maschi".

Ed eccolo di nuovo sulla banchina approssimarsi con una morsa al cuore alla prima catasta di corpi maschili. Questa volta la ricerca è breve. Solito rituale della mascherina, coi carabinieri che ora vengono aiutati dallo stesso appuntato che ha preso a cuore il caso. Sposta di qua, tira via di là, i cadaveri con gli occhi sgranati sulla morte tra le masse scure di fuliggine vengono rimossi a uno a uno. Ed ecco che d'un tratto papà vede spuntare una testa avvolta da un fazzoletto. Il suo cuore ha un sussulto. È una donna! E il fazzoletto è quello delle nozze che la povera donna si è stretta al capo, quasi per cingersi idealmente in quella stoffa nell'ultimo abbraccio di Gennaro.

E Gennaro si getta su quel fazzoletto, su quel viso abbracciandolo. Come un forsennato si toglie la mascherina, bacia il nero fumo e le labbra ancora belle, e il naso regolare, mentre già i carabinieri lo tirano via e l'appuntato lo consola.

Papà piange coprendosi il volto con le mani, mentre i giovani provvedono a tirare via prima lui e poi il corpo, che ricompongono devotamente nello spiazzo poco oltre. Ora Giulia è là ai suoi piedi. E l'amato ancora si getta su di lei e l'abbraccia e piange. Stavolta nessuno osa toccarlo. Vanno via i militi, in silenzio. Lasciandolo solo col suo dolore, col suo amore senza confini chiuso per sempre in quel fazzoletto di nozze che la madonna, per una strana grazia pur nella morte, ha lasciato incredibilmente bianco.

Tutti i corpi sono stati trasportati fuori del piccolo cimitero di Balvano.

Dopo l'estremo saluto, un prete è venuto a officiare nella cappelletta adiacente al camposanto la santa messa per i defunti.

Ora mio padre neppure sente più gli strazi degli altri parenti, lui da solo là col suo dolore, incollato con gli occhi al corpo che già viene tumulato insieme a tutti quanti gli altri.

Hanno scavato tre fosse comuni a forma di pi greco: ai lati gli uomini e in capo le donne. Ora la terra gettata giù a forza con le pale già cade a ricoprire le spoglie di questi compagni di sventura.

Ora il vento agita il fazzoletto che papà stringe tra le mani e un canto lontano si leva nel suo cuore a modulare nell'eterno tre parole, note per una musica del paradiso: "Addi' donna Giulia. Addi'".

Al lamento del papà, solo mi unisco, e anch'io elevo col flicorno un canto silente che si fa parole d'infinito amore. "Aspettami, mamma, aspettami. Ci rivedremo da qualche altra parte. Aspettami".
Pà-pà-pà. Pà-pà-pà. Pà-pà-pà.

 

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Gennaro Francione

  è nato a Torre del Greco (NA).


 Ha intrapreso la carriera giudiziaria svolgendo in quel di Monza e a Roma funzioni di Pubblico Ministero, Giudice Istruttore, Giudice di Tribunale, dirigente dell'Amministrazione Penitenziaria. Attualmente vive nella capitale dove, col grado di Consigliere di Corte di Cassazione, svolge funzioni di giudice presso la sezione penale del Tribunale.
Sposato con una maltese, la dolce Astrid, ha due splendidi figli David Gregor e Maya.
E' pittore metafisico, compositore di 

musica classica e folk ma soprattutto scrittore, prediligendo il genere esoterico, gotico e fantastico.
E' appassionato di scacchi (2a categoria nazionale, giocatore titolare nella squadra di Casalpalocco militante in serie C per il 1994) e di computer, con cui scrive le sue opere e gestisce la sua vita privata e pubblica.

Ha l'incarico onorifico di consulente del M.I.C.S. - Museo Internazionale del Cinema e dello Spettacolo.

http://www.antiarte.it/adramelekteatro/storia.htm