Treno a
vapore
Il verro di Baragiano
di Gennaro
Francione
Il
romanzo Il verro di Baragiano ha vinto il 1° premio della sezione
Narrativa del concorso letterario Il Telescopio.
Il racconto è tratto dal romanzo Calabuscia: (La fuga dopo
l'armistizio lungo tutto la penisola di due napoletani, padre e figlio,
alla ricerca di una salvezza che si rivela una mera chimera. La vita è
un'eterna Calabuscia, una gabbia.
Dopo che miracolosamente un'intera famiglia è uscita intatta dalla
guerra, nel sud liberato accade la tragedia che uccide nonna Giulia)
- Aetas Internazionale - Roma, ottobre 1994.
*******************
Prima parte (da Zeus n° 51 - Aprile 2001)
Così va l'Italia in guerra. Si dibatte come un serpe colpito a morte
per cercare con guizzi finali di risorgere e scampare alla tragedia finale
che si annida passo dopo passo.
Intanto dopo un gelido febbraio il paesaggio sembra ridestarsi, con le
prime forme floreali colorate pronte a dare i primi spruzzi della nuova
gioia solare.
In questo tempo, quando gli uccelli tornano sui tetti delle case crollate
a cantare il loro canto di rinascita, mia madre viene ancora e se ne va.
Una sera, una maledetta sera, una come tante, donna Giulia parte per non
fare più ritorno. Tutto è accaduto.
Oggi è venerdì 3 marzo. Donna Giulia sarebbe dovuta partire ieri per
Baragiano, ma un negozio era sfornito di biancheria, per cui ha dovuto
rimandare a oggi la partenza.
Papà l'accompagnerà. Per questo stamattina vado da solo a lavorare al
porto e già nella pallida luce dell'alba bacio mia madre che fa capolino
tra i cuscini, sussurrandole: "Mammà, ve voglio tanto
bbene!"
"Pur'io figlio mio! Và và, ce vedimmo tra quinnece juorne!"
A queste parole dal lettone si leva la mano di papà che mi carezza tra i
capelli, bisbigliandomi con la voce impastata di sonno: "Ce
vedimmo stasera Vicié. Bona jurnata!"
Li bacio tutti e due, i miei amati, e volo via. Mentre il tram
sferragliando avanza verso Napoli, fermando a ogni stazione per prendere
gli assonnati lavoranti, sono immerso tra immagini oniriche e pensieri
strani.
Talora apro gli occhi e mi lascio abbagliare dall'alba che là fuori è
chiara chiara.
Sembra proprio che oggi sarà bello. E infatti quando le ore del giorno si
affacciano sul porto, dopo che già ho cominciato a scaricare da una nave,
il mondo è inondato da un tempo che di prima mattina è decisamente uno
schianto. Ha cominciato con una gran sole che spaccava le pietre e l'aria
tiepida come se si fosse a maggio. Poi in coperta, mentre trascino casse
di liquori, qualcosa cambia.
Vedo l'aria invasa da stormi di gabbiani che gracchiano come impazziti e,
a questo sinistro presagio, si aggiunge laggiù, oltre il faro, una massa
di nuvolaglia scura e minacciosa.
Improvvisamente si leva un gran vento di mare e provoca ondate talmente
forti che la nave su cui sto lavorando sbatte furiosamente contro il molo,
e quasi sembra che voglia spezzare gli ormeggi.
Tutto questo ribaltamento della natura mi dà un senso d'inquietudine
crescente, che cerco invano di spiegare col fatto in sé della repentina
bufera. Presto saprò cosa ho letto nello scatenarsi degli elementi sulla
mia testa. Da questo momento come in un incubo ricostruisco, volando
simile a un fantasma sugli avvenimenti cui non ho partecipato in prima
persona, tutto quanto è accaduto.
È quasi l'una. Don Gennaro e la moglie reggendo le mappate di cose
scendono dal tram.
Facendosi strada tra il diluvio d'acqua che si sta abbattendo sulla città,
corrono per quello che possono con tutto quel carico ed entrano trafelati
nella stazione di Napoli.
Don Gennaro è intriso d'acqua comm' a nu purpetiell' e va bestemmiando:
"Mannaggia
'o pataturco! Isso e ll'acqua!"
Mia madre si è coperta bene con il lenzuolone imbottito di biancheria che
ha messo sulla testa, e ha subìto meno danni.
Il treno sta appena appena per partire. Lo vedono laggiù col capotreno
che già serra alcune porte.
"Curre Giulia! Curre!" fa papà, tirandole via anche
l'ultima mappata di roba e lasciando che la compagna corra verso l'ultimo
carro merci, dove alcune mani si protendono ad aiutare il passeggero
ritardatario. Arrancando con le sacche che lo sballonzolano di qua e di là,
e che sono tante da farlo sembrar avere non due ma cento mani, trafelato
arriva anch'egli sotto il treno col capotreno che invita: "Ampressa,
facite ampressa!".
Mammà da là sopra aiuta papà a scaricare la roba all'interno del
convoglio. Indi anche lui si arrampica ed entra. Ha ancora il tempo di
aiutarla a sistemarsi in un posto libero tra il fieno, facendosi strada
tra la ressa di viaggiatori accaldati e puzzolenti per accalcare la roba
in un angolo.
Fiii, fiii! È il fischio del capotreno che assale l'alzata dell'ultimo
carico, tanto che donna Giulia invoca: "Gennà fa' subbeto! Ca 'o
treno parte!" "Vaco, vaco".
Mio padre getta le braccia al collo di mamma la bacia, la stringe, scappa
via, e salta giù che già il treno comincia a muoversi. Poi da laggiù
prende a salutarla e a lanciarle un bacio nascosto, mentre lei sporgendosi
dalla porta con gli occhi lucidi agita, in mezzo a mille altri mani
vorticanti, il fazzoletto del giorno delle nozze.
Ciuf, ciuf, ciuf. La locomotiva a carbone ansimando trascina il pesante
convoglio sul binario e lancia il suo fumo che penetra acre nei carri
merci, andando a infilarsi negli spazi d'aria liberi lasciati dai nugoli
di viaggiatori. Si tratta di maschi adulti, ma soprattutto di donne,
vecchi, bambini con accanto i loro mucchietti di cose personali o da
contrabbandare. Ancora il destino tesse le fila dei poveri mortali. Questo
treno, uno dei pochi messi a disposizione dei civili, segue la routine e
viene sovraccaricato per le necessità del trasporto militare. Come se non
bastasse il peso già eccessivo di cose, mezzi bellici e uomini, a Salerno
vengono aggiunti altri carri merci al convoglio, alcuni anch'essi ricolmi
di passeggeri.
A seguito di queste manovre la carrozza di mia madre che fortunatamente
per il ritardo era l'ultima diventa centrale.
Donna Giulia pensa al marito, a me, al giorno in cui tutta la famiglia si
riunirà a Torre e quando assiste all'aggiunta di vagoni quasi ringrazia
il Signore. Stando al centro potrà scendere a Potenza sulla banchina, e
con tutta quella roba ingombrante e pesante non dovrà fare un lungo
tratto a piedi sui binari. Ahimè cara mamma come le cose s'intrecciano in
assurdi grovigli per cui, come il tempo di marzo, tutto si trasforma
repentinamente, il male in bene e il bene in male.
Tutto quello che era scritto accade nella galleria di Balvano.
Là si ferma il treno, nel buio della notte che è ancora più cupa nel
tunnel della morte eterna.
La locomotiva allo stremo si arresta per l'eccessiva zavorra di uomini e
cose trasportate, che impedisce di montare in salita. Il fuochista, in
minuti di follia che coinvolge anche il macchinista, non fa che alimentare
il mostro infernale, il quale invece di sprizzare energia continua a
sputare fuoco e fumo tanto da invadere sempre più la galleria.
Sulle prime nei vagoni tutti i passeggeri si sono accorti che il convoglio
si è fermato e sono inquieti, anche se non sanno bene cosa stia
succedendo.
Nell'oscurità totale degli antri metallici ricolmi di uomini e cose
volano borbottii, commenti, lamenti, bestemmie.
Solo alla fine, quando il fumo invade l'ambiente in maniera sempre più
fitta e la gente prende a tossicchiare, il panico comincia a diffondersi,
anche se ancora nessuno osa muoversi. Il non sapere cosa stia succedendo
impedisce d'intuire il cosa fare.
Giulia nel suo cantuccio si afferra al fazzoletto e lo stringe alla bocca
fino a farsi male, mentre tra sé e sé barbuglia: "Madonna mia!
Nun voglio murì! Damme a Gennaro ancora!" Le zaffate di fumo
divengono sempre più spesse. Ora tutti tossiscono, le donne si disperano
e gridano: "Ch' è succieso?" "Che sta venenno?"
"Scappamme! Chist' è bbeleno!" urla alla fine un vecchio.
"Fuimme genta gè!" fa eco una popolana.
Come una valanga, sbraitando, spingendo, coi bambini piangenti che
strillano nel buio "Oi mà! Mammà!", tutti si avviano
verso il varco ligneo e si buttano giù.
Donna Giulia ha un attimo d'indecisione e si schiaccia contro la parete
mentre bisbiglia: "'A rrobba!"
Svelta si accuccia per terra, ma invano si allunga cercando di aggrapparsi
almeno al manico del sacco con la biancheria.
Viene subito travolta dalla massa e, sospinta via, cade giù dal treno,
andando a finire su una pietra.
Con la gamba dolorante, con le labbra attaccate al fazzoletto, prende ad
avanzare insieme agli altri che ora si sono sparpagliati in fila indiana.
I giovani più veloci corrono avanti, ma molti di loro sono rallentati
proprio per dare aiuto ai loro vecchi e ai bambini.
Si avanza al buio palpando con le mani ora il ferro freddo del convoglio
ora il muro umido della galleria, mentre il fumo diventa sempre più
intenso e acre e ha ormai completamente invaso lo spazio, che sembra, nello scurore immane, l'antro stesso dell'inferno.
Molta gente tossisce in rigurgiti sempre più spasmodici, e presto i primi
fuggiaschi cominciano a cadere, sicché urlando e piombando giù quelli
che vengono dietro si trovano innanzi, nuovi ostacoli, i corpi delle prime
vittime asfissiate e falciate dai gas venefici. E allora nel contatto ecco
elevarsi nuovi sinistri ululati di donne e pianti di bimbi.
Donna Giulia ha appena il tempo d'intravedere laggiù lontano uno
spiraglio minuscolo macchiato da un raggio bluastro e di pensare: "Chella
è a luna!", che piomba a terra in mezzo ad altri corpi per non
più rialzarsi.
|
Dopo
la galleria della strage c'è la stazione di Balvano. Là invano il
capostazione e alcuni parenti di passeggeri stanno in attesa del treno
notturno.
Quando il ritardo diventa preoccupante il dirigente fa scattare l'allarme
e invia una locomotiva di soccorso.
Quale spettacolo orrendo si para innanzi agli occhi del macchinista!
Davanti alla sua motrice spunta ancora fumante la testa del convoglio,
sinistramente immota.
Sotto di lui sbucano da chissà dove i conducente del treno che, agitando
le mani, gridano: "Aiutateci! È una tragedia!"
Sceso rapido con gli uomini del soccorso armati di torce, il macchinista,
con l'aria che è tornata appena respirabile, li guida all'interno del
tunnel, dove presto si parano davanti agli occhi, tra i fasci di luce, i
nugoli di cadaveri riversi, anneriti, con le bocche spalancate alla vana
estrema ricerca di quell'aria che non c'era più.
Molti, i più vecchi, neppure si sono mossi dai loro giacigli notturni sui
convogli.
Li trovano là attaccati alle loro cose, immoti tra quella marea fuggiasca
di commercianti di guerra, con la testa appoggiate ai loro lenzuoli, alle
valigie, aggrappati alle cose della sopravvivenza nel baratto.
Che macabro spettacolo! Sono quasi tutti morti i passeggeri della miseria
in quella grigia alba tra le montagne brulle. Solo quelli che, in coda,
erano vicini all'uscita della galleria, sono riusciti a salvarsi.
Li trovano là fuori allo sbocco opposto della galleria urlanti,
piangenti, con la bocca piena di parole di grazia ricevuta dalla Madonna e
dal Signore.
*********************
Seconda parte
(da Zeus n° 52 - Maggio 2001)
Capite allora la mia rabbia, il mio dolore per un destino beffardo che
pose mia madre prima in coda al convoglio, per poi farla ritornare al
centro del treno maledetto?
Presto arrivano sul posto altri soccorsi. Accorrono i Carabinieri, ma
anche volontari, venuti fuori dalla gente comune che è stata risvegliata
dal suono sinistro delle campane, lanciato nel sinistro dilucolo da preti
e sacrestani nelle un dì placide chiesette di campagna. Qualcuno ha
temuto attonito un implausibile attacco aereo. Alla fine tutti si
prodigano a recarsi sul luogo del disastro. Qui non rimane che attuare
l'opera pietosa di ricaricare i nugoli di corpi sul treno della morte, che
solo nell'alba avanzata viene trascinato come una lunga inesauribile bara
nella stazione di Balvano.
Sulle ali di un vento che reca con sé ancora la puzza dei fumi e dei
cadaveri arriva orrenda la notizia.
È la voce popolare che la trasmette, non la radio che tace, né i
giornali che non ci sono ancora.
Come un seme una voce singola che avrà attinto la notizia dal posto della
sciagura, ha cavalcato su un treno, su una corriera, su un tram arrivando
infine a Napoli, dove il germe dell'informazione dilaga come la peste,
arrivando a colpire i nostri orecchi e trafiggendo i nostri cuori.
"Sapite?" annuncia la gente.
"S'è ffermato nu
treno della linea Napoli-Potenza sotto 'a galleria 'e Balvano e so' morte
600 persone soffocate dai gas venefici".
600 persone. Maledizione! La mamma, dov'è la mamma? Si sarà salvata.
Stiamo scaricando roba quando la notizia ci arriva.
Mio padre è pallido come un cencio; io mi sento quasi svenire. Don
Gennaro va a parlare col marinaio americano, il quale gli dice con un
gesto della mano contrito: "Oooh!go!go!". Poi papà mi
viene accanto e con durezza, mentre lo fisso negli occhi come imbambolato,
mi sussurra: "Vicié, mammete è bbiva! E' bbiva l'haje capito!
L'avimme 'a credere...è bbiva!".
"Sì papà è bbiva...".
"Tu và a casa pe' oggi. Pensa a nonna e cunzulala si ha saputo 'a
nutizia. O si no nun dicere niente. I' vaco a Balvano".
"Voglio venì pur'io".
"No, fa' cumme t'aggio ditto. Pens' 'a nonna. Pensa a faticà pe'
cchelle povere creature che stanno sole a Baraggiano e hann' 'a mangià".
Si è controllato, ma ora non ce la fa più e gli vengono le lacrime.
"Và
Vicié, và".
Mi vede andar via e lui sta sul molo, piangente. Mi volto e sta ancora là.
Procedo mi volto di nuovo e già lui si muove, ora, prima lento e poi a
passo sempre più veloce. Su quel vento che ha portato la fera notizia
vorrebbe volare per raggiungere la sorte della sua amata. Ed eccolo don
Gennaro che con mezzi di fortuna: camion, macchine, carrette, il
pomeriggio inoltrato è già alla stazioncina di Balvano. Nella saletta
d'attesa c'è gente che piange, con urla strazianti, consolata da parenti
e amici. Quando papà intravede i corpi ammassati sulla banchina, rigira
la testa verso i vivi che operano poco distante. Sì, là vuole, là deve
cercare perché Giulia "dev'essere viva"!
Corre verso i carabinieri che stanno stendendo i rapporti e chiede
informazioni sui sopravvissuti: "S'è salvata na certa Giulia
Francione?" chiede a un capitano dei militi, che controlla la
scarna lista scuotendo la testa.
"Vedite bbuono capità..." insiste, cercando egli stesso
di mettersi con la testa nel foglio per leggerci chissà cosa, egli che è
semianalfabeta. L'altro lo fissa con tristezza, riprende a scorrere con
cura la lista, indi rialza gli occhi e sussurra: "No, non c'è
proprio. Mi dispiace...".
Con le spalle cascanti l'uomo di Torre si lascia indirizzare da quello
sguardo velato dell'autorità e si avvia mogio mogio verso la zona della
morte, seguito da un gruppo di giovani carabinieri.
Eccolo là ora accanto alle cataste di corpi.
I cadaveri sono stati ammassati a formare tre montagne, dividendo con gran
coraggio le femmine dai maschi, distribuiti a loro volta in due mucchi per
il loro maggior numero.
I militi invitano papà, com'essi fanno, a indossare una mascherina sulla
bocca, indi lo aiutano a cercare naturalmente tra le donne, ma Giulia non
si trova.
"Cercamme! Cercamme bbuono"
fa ai giovani aiutanti che
continuano a spostare corpi. L'operazione è lunga e dura una buona
mezz'ora, ma Giulia non c'è proprio.
Per un attimo il volto gli si illumina: è possibile che si sia salvata.
Ma allora dov'è?
"Nun ce sta! Nun ce sta! Fosse gghiuta 'o spitale?".
"È possibile" risponde un giovane con accento nordico.
"Può
darsi che è saltata nella lista perché l'hanno portata subito via".
Senza frapporre indugio papà esce dalla stazione e si porta direttamente
dall'appuntato che coadiuva il capitano dirigente le operazioni. Ponendolo
a parte del problema ottiene di essere portato immediatamente in caserma
con la camionetta. Là s'incolla al graduato che s'è attaccato al
telefono. Chiamano due, tre, cinque ospedali della zona, compresi quelli
di Potenza. Niente da fare... Di Giulia non c'è traccia. "Muglierema!
Addò sta muglierema".
L'appuntato, un pagnottone dall'aria buona, si alza dal suo posto, depone
la cornetta e prende per le spalle il pover'uomo suggerendogli con un
sospiro: "Mi dispiace. Ma c'è un posto dove non avete ancora
cercato".
"Addò..."
soggiunge Gennaro terreo, fissando in quegli
occhi grandi una luce di speranza che non c'è. "Tra i cadaveri
dei maschi".
Ed eccolo di nuovo sulla banchina approssimarsi con una morsa al cuore
alla prima catasta di corpi maschili. Questa volta la ricerca è breve.
Solito rituale della mascherina, coi carabinieri che ora vengono aiutati
dallo stesso appuntato che ha preso a cuore il caso. Sposta di qua, tira
via di là, i cadaveri con gli occhi sgranati sulla morte tra le masse
scure di fuliggine vengono rimossi a uno a uno. Ed ecco che d'un tratto
papà vede spuntare una testa avvolta da un fazzoletto. Il suo cuore ha un
sussulto. È una donna! E il fazzoletto è quello delle nozze che la
povera donna si è stretta al capo, quasi per cingersi idealmente in
quella stoffa nell'ultimo abbraccio di Gennaro.
E Gennaro si getta su quel fazzoletto, su quel viso abbracciandolo. Come
un forsennato si toglie la mascherina, bacia il nero fumo e le labbra
ancora belle, e il naso regolare, mentre già i carabinieri lo tirano via
e l'appuntato lo consola.
Papà piange coprendosi il volto con le mani, mentre i giovani provvedono
a tirare via prima lui e poi il corpo, che ricompongono devotamente nello
spiazzo poco oltre. Ora Giulia è là ai suoi piedi. E l'amato ancora si
getta su di lei e l'abbraccia e piange. Stavolta nessuno osa toccarlo.
Vanno via i militi, in silenzio. Lasciandolo solo col suo dolore, col suo
amore senza confini chiuso per sempre in quel fazzoletto di nozze che la
madonna, per una strana grazia pur nella morte, ha lasciato
incredibilmente bianco.
Tutti i corpi sono stati trasportati fuori del piccolo cimitero di
Balvano.
Dopo l'estremo saluto, un prete è venuto a officiare nella cappelletta
adiacente al camposanto la santa messa per i defunti.
Ora mio padre neppure sente più gli strazi degli altri parenti, lui da
solo là col suo dolore, incollato con gli occhi al corpo che già viene
tumulato insieme a tutti quanti gli altri.
Hanno scavato tre fosse comuni a forma di pi greco: ai lati gli uomini e
in capo le donne. Ora la terra gettata giù a forza con le pale già cade
a ricoprire le spoglie di questi compagni di sventura.
Ora il vento agita il fazzoletto che papà stringe tra le mani e un canto
lontano si leva nel suo cuore a modulare nell'eterno tre parole, note per
una musica del paradiso: "Addi' donna Giulia. Addi'".
Al lamento del papà, solo mi unisco, e anch'io elevo col flicorno un
canto silente che si fa parole d'infinito amore. "Aspettami,
mamma, aspettami. Ci rivedremo da qualche altra parte. Aspettami".
Pà-pà-pà. Pà-pà-pà. Pà-pà-pà.
**********************
Gennaro Francione
è nato a Torre del Greco (NA).
Ha intrapreso la carriera giudiziaria svolgendo in quel di Monza e a
Roma funzioni di Pubblico Ministero, Giudice Istruttore, Giudice di
Tribunale, dirigente dell'Amministrazione Penitenziaria. Attualmente vive
nella capitale dove, col grado di Consigliere di Corte di Cassazione,
svolge funzioni di giudice presso la sezione penale del Tribunale.
Sposato con una maltese, la dolce Astrid, ha due splendidi figli David
Gregor e Maya.
E' pittore metafisico, compositore di
musica classica e folk ma
soprattutto scrittore, prediligendo il genere esoterico, gotico e
fantastico.
E' appassionato di scacchi (2a categoria nazionale, giocatore titolare
nella squadra di Casalpalocco militante in serie C per il 1994) e di
computer, con cui scrive le sue opere e gestisce la sua vita privata e
pubblica.
Ha l'incarico
onorifico di consulente del M.I.C.S. - Museo Internazionale del Cinema e
dello Spettacolo.
http://www.antiarte.it/adramelekteatro/storia.htm
|