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ALCUNI STRAORDINARI MESSAGGI  DI LUIGI MARI: DAL FORUM TORREOMNIA  

In questa pagina 7 messaggi

Id 350
TI HO VOLUTO BENE,  SCORDANDO 
IL DUALISMO PER ANTONOMASIA. 


Salvato' Tu sei il Vate, ripeto Vate (e Dio mi fulmini se ho pensato ad una (r) finale). Tutto quello che dici tu sulla "lenga turrese è vangelo". Deferente ti chiedo perché la u di (u turrese) non è precetuta dal troncamento che sostituirebbe la l mancante di lu turrese, come, ad esempio si scrive 'o napulitano (lo napulitano) Come pure r'a Torre (della) in napoletano d''a?

Ma veniamo a noi. In primo luogo non è vero che non leggo quelle che Tu chiami "stroppole", ma che, invece, sono un faticoso lavoro di filologia cognitiva, per non scomodare l'esegesi. Tu che hai esordito in Torreomnia sventrando, nelle reminiscenze, i tuoi precordi, trivellando il vernacolo corallino liofilizzandolo, quindi, nella sua essenza per poi ricomporlo come elisir onirico, come nettare letterario, panacea, nutrimento dello spirito vesuviano che ha smarrito il suo tramontato precipuo caratteriale etico, mistico e sensuale coesistenti.
Hai rivelato pubblicamente, nella sua acerba, verace autenticità, la frase torrese per Te iniziatica dei due imberbi "vasciammaresi": "se ne pozzeno fa' tutte attuppaglie p''a fessa", immediatamente dopo aver scoperto un furto di biancheria perpetrato ad una povera popolana di "Mmieze Santa Maria".
Una frase apparentemente triviale, scurrile, oscena, ma che nella sua essenza è tuttalpiù plebea e inelegante, da una certa ottica, ma che ostenta come un vessillo la trovata geniale del termine di paragone insuperabile, pur se ingenuo ed improvvisato. Non c'è imprecazione, né minaccia, nè offesa, tutto si riduce all'epiteto nella sua fonetica, e lascia una tale vastità di interpretazioni personali da cogliere quasi un senso religioso nella frase, perché muliebre, materna, generativa nel senso biologico della vita.
Questa espressione ha scatenato in Salvatore Argenziano tutte le molle sensitive; e quale miglior sprone per approfondire gli stuti su quella che Egli chiama " 'a lenga turrese". Un meccanismo inconscio, nella fattispecie, che accantona la sensualità e l'ingiuria nell'espressione citata per dare priorità all'archetipo, cioè al negativo storico che ha accompagnato il flusso periodico femminile tra falsi mistici e superstizioni, fino a precludere, sino a qualche decennio fa, l'istruzione preventiva all'evento naturale dalle mamme alle dodicenni.
I lemmi che Tu cogli, studi, manipoli, conii, caro SALVATORE U TURRESE, diventano reliquie sotto la Tua penna e sono quindi sacrosanti; omettere un troncamento, variare una vocale, addirittura pronunciarla male è sacrilegio, equivale a sfigurare il viso ad un proprio figlio.
In secondo luogo l'amore e l'odio sono lo stesso sentimento all'estremo opposto. Amiamo le nostre radici, ma nel contempo le temiamo, ma è più comodo dire le snobbiamo. La parolina in napoletano ci scappa perché il vernacolo torrese, per così dire, vivo, ci ripone giocoforza nel rango dei plebei, ci relega nell'angolo dell'anticultura in tutta la sua pregiudiziosa logica comune popolare.
Scriviamo il torrese virgolettato, ne facciamo materia di studio, ma il vero torrese "vasciammarese" quello biascicato, farcito di francesismi, arabismi e comunque stranierismi delle dominazioni nessuno di noi "cultori" lo parlerebbe liberamente ed apertamente in pubblico, in un dibattito, in una conferenza, senza sentirci impoveriti di quello che ci ha dato l'Universita, l'iperdiffusione elettronica, l'Italia del nord, la maturità.
Il vernacolo torrese verace è solo la nostra infanzia tramutata in lemmi, è la transustanzazione dell'alito di mamma in parole, in suoni, in musica in sordina, in colonna sonora dei nostri prima anni di vita, costipati nelle fasce come oggetti si studi egittologici.
Non è vero Tato' che non ti leggo, è come se avessi detto che non guardo mai le foto di mia madre solo perché quarant'anni fa il destino non me l'ha fatta più vedere.

Luigi Mari

ID: 1354

MALAPARTE AMBIENTA A TORRE UNA STORIA DEL TERZO SESSO 

L’identificativo di risposta 1350 alla discussione "Torre del Greco, malgrado tutto ti amo", ha mosso un paio di e-mail sulla mia posta privata dove mi si chiede uno stralcio del tremendo, caustico capitolo "la figliata" di Malaparte, ambientato a Torre del Greco.. Ho trovato una copia del 67 ed ho scannerizzato la parte saliente del capitolo e poi convertito in ASCII col l’OCR..
Ma perché, benedetti!, non scrivete sul forum direttamente?. Non ci sono Lupi, qui! Forse agnelli o anielli, ma nessuno vi sbrana.

Luigi Mari

(Se ne SCONSIGLIA la lettura ai BAMBINI se non insieme ai genitori).

"La pelle" è stato tradotto in tutte le lingue, in tutto il mondo. Malaparte è stato uno dei maggiori scrittori italiani del XX secolo.
Pubblico solo questo stralcio del capitolo "Il Figlio di Adamo" de "La pelle" soprattutto perché è totalmente AMBIENTATO A TORRE DEL GRECO, "ABBACIAMMARE". Pubblico solo la seconda parte del capitolo, il clou, perché l'opera è ancora coperta dai diritti di autore, poiché la morte di Curzio non ha ancora raggiunto i settant'anni e un giorno perché ne decada il copyright del 1949 Vallecchi editore - Firenze. Edizione del 1987.

Curzio Malaparte era un parlatore squisito e un grande ascoltatore pieno di tatto e di eucazione. Un uomo di cultura eccezionale, conosceva molte lingue. Da un pamphlet letterario Kurt Erick Suckert scelse lo pseudonimo di Curzio Malaparte e mai pseudonimo fu più appropriato.
Nelle introduzione dei suoi numerosi libri . tutti di grande successo mondiale si legge che Curzio cambiò “parte” frequentemente, tanto da essere considerato da molti un voltagabbana a causa delle diverse scelte ideologiche che intraprese. Dal repubblicanesimo al fascismo, dall’antifascismo al comunismo e in ultimo alla conversione verso il cattolicesimo.
Personaggio complesso, come solo l’intelligenza, la genialità può essere. Incoerente, stravagante ma allo stesso tempo dotato di una gran logica e una grande passione. Uomo di gran gusto, dai gesti paradossali e bizzarri come sono tutti i “maledetti toscani”.
Uno degli scrittori italiani più indipendenti del XX secolo, «la più bella penna del fascismo» lo definì Piero Gobetti.
Malaparte, di padre tedesco e madre italiana, nacque a Prato il 9 Giugno 1898. Morì nel 1957.
Nehgli anni 80 fu realizzato anche un film del libro interpretato, tra lì
Questo capitolo mette in risalto la maestrìa stilistica dello scrittore. ‘altro, da Marcello Mastroianni e Burt Lankaster.
In questo capitolo ambientato a Torre, eccelle il linguaggio figurato, le metafore, egli costruisce la "pagina", adulta è straordinaria, come in tutti i suoi libri. "La Pelle" fu messa al "bando morale" dalla città di Napoli.
Il libro è un crescendo di doglianze e miserie della Napoli del dopoguerra. Oggi, a freddo, le ferite della guerra si sono rimarginate e la cosa viene vista da un'ottica diversa. “La pelle”, insieme a “Kapput” e altri rimane un capolavoro della letteratura universale del 900.
Quasi tutti i libri di Malaparte sono autobiografici, infatti egli narra sempre in prima persona. Davvero era un ufficiale italiano alleato agli americani liberatori e ne faceva da cicerone e da guida condividendone moltissimi eventi.
(Mi raccomando i bambini).

IL FIGLIO DI ADAMO

II giorno dopo, il Colonnello Jack Hamilton mi portò con la sua macchina a Torre del Greco. (Torre viene citata e descritta con particolari urbani più volte nelle prima parte del capitolo N.d.r,). L’idea di assistere a una «figliata, l’antica cerimonia sacra del culto uraniano, lo divertiva e, al tempo stesso, lo turbava. La sua coscienza puritana lo metteva in sospetto, ma io avevo finito per addormentare i suoi scrupoli. Non era forse un americano, un vincitore, un liberatore. (...)
(...) Era una povera stanza di pescatori, ingombra di un immenso letto nel quale, sotto una coperta di seta gialla, giaceva, uomo o donna, un vago essere umano: la testa, affondata in una candida cuffia orlata di merletti e stretta sotto il mento da un largo nastro azzurro, posava in mezzo a un ampio e gonfio guanciale dalla lucida federa di seta bianca, come una testa mozza in un piatto d’argento.
Nel viso bruciato dal sole e dal vento splendevano gli occhi grandi e scuri. Aveva la bocca larga, dalle labbra rosse ombreggiate da un paio di baffetti neri. Era un uomo, senza dubbio, un giovane di non più di vent’anni.
Si lamentava cantando a bocca aperta, e dondolava la testa qua e la sul guanciale, agitava fuor dei lenzuoli le braccia muscolose strette nelle maniche di una femminile camicia da notte, come se non potesse più sostenere il morso di qualche sua crudele doglia, e ogni tanto si toccava con ambo le mani, cantando: « ohi! ohi misera me! » il ventre stranamente gonfio, proprio il ventre di una donna incinta.
Intorno al letto, Jeanlouis e i suoi amici si agitavano premurosi e spaventati, come in preda all’angoscia che stringe il cuore dei familiari intorno al capezzale di una partoriente: e quale rinfrescava con pezzuole bagnate la fronte del paziente, quale, versati in un fazzoletto aceti e aromi, gliel’accostava alle nari, quale preparava asciuga- mani, garze, bende di lino, quale si accendeva intorno a due catinelle dove una vecchia dal viso grinzoso, e dai grigi capelli arruffati, con gesti lenti e studiati, in contrasto con 1’angoscioso dondolar del capo, con i sospiri affannosi che traeva dal petto, con gli sguardi imploranti che alzava al cielo, andava versando acqua calda da due brocche che sollevava e abbassava ritmicamente.
Tutti gli altri correvano senza posa qua e la per la stanza, incrociandosi, urtandosi, stringendosi il capo fra le mani, e gridando: « Mon Dieu! mon Dieu! » ogni volta che il partoriente gettava un urlo più acuto, o un gemito più straziante. In piedi in mezzo alla stanza, con un enorme pacco di cotone idrofilo stretto fra le mani, dal quale con gesto solenne veniva traendo larghi fiocchi di bambagia. Era una povera stanza di pescatori, ingombra di un immenso letto nel quale, sotto una coperta di seta gialla, giaceva, uomo o donna, un vago essere umano: la testa, affondata in una candida cuffia orlata di merletti e stretta sotto il mento da un largo nastro azzurro, posava in mezzo a un ampio e gonfio guanciale dalla lucida federa di seta bianca, come una testa mozza in un piatto d’argento.
Nel viso bruciato dal sole e dal vento splendevano gli occhi grandi e scuri. Aveva la bocca larga, dalle labbra rosse ombreggiate da un paio di baffetti neri. Era un uomo, senza dubbio, un giovane di non più di vent’anni. Si lamentava cantando a bocca aperta, e dondolava la testa qua e la sul guanciale, agitava fuor dei lenzuoli le braccia muscolose strette nelle maniche di una femminile camicia da notte, come se non potesse più sostenere il morso di qualche sua crudele doglia, e ogni tanto si toccava con ambo le mani, cantando: « ohi! ohi misera me! » il ventre stranamente gonfio, proprio il ventre di una donna incinta.
Intorno al letto, Jeanlouis e i suoi amici si agitavano premurosi e spaventati, come in preda all’angoscia che stringe il cuore dei familiari intorno al capezzale di una partoriente: e quale rinfrescava con pezzuole bagnate la fronte del paziente, quale, versati in un fazzoletto aceti e aromi, gliel’accostava alle nari, quale preparava asciuga- mani, garze, bende di lino, quale si accendeva intorno a due catinelle dove una vecchia dal viso grinzoso, e dai grigi capelli arruffati, con gesti lenti e studiati, in contrasto con 1’angoscioso dondolar del capo, con i sospiri affannosi che traeva dal petto, con gli sguardi imploranti che alzava al cielo, andava versando acqua calda da due brocche che sollevava e abbassava ritmicamente. Tutti gli altri correvano senza posa qua e la per la stanza, incrociandosi, urtandosi, stringendosi il capo fra le mani, e gridando:
« Mon Dieu! mon Dieu! » ogni volta che il partoriente gettava un urlo più acuto, o un gemito più straziante.
In piedi in mezzo alla stanza, con un enorme pacco di cotone idrofilo stretto fra le mani, dal quale con gesto solenne veniva traendo larghi fiocchi di bambagia che, lanciati in aria, gli ricadevano intorno lentamente come una tiepida neve da un cielo luminoso e caldo, Georges pareva la statua dell’Angoscia e del Dolore.
« Ohi! ohi! misera me!” cantava il partoriente picchiandosi con ambo le mani nel ventre gonfio, che risuonava come un tamburo, e il tonfo profondo di quelle forti dita di marinaio in quel ventre di donna incinta suonava crudelissimo a Georges, che chiudeva gli occhi, smorto in viso e tremante, e gemeva:
« Mon Dieu! ah! mon Dieu! »
Non appena Jeanlouis e i suoi amici si accorsero di noi, che, fermi sulla soglia, contemplavamo quella scena straordinaria, ci furono addosso con un grido solo: e con timidi gesti, con violenza pudica, con cento specie di smanie e di mossette graziose, con leggere toccatine che parevano carezze, con sospiri che parevan di spavento, ed eran quasi, di piacere, tentavano di spingerci fuor della porta.
E sarebbero forse riusciti nel loro intento, se all’improvviso un grido altissimo non fosse risuonato nella stanza. Tutti si voltarono, e con un mugolio di dolore e di spavento si avventarono al letto. Pallido, gli occhi sbarrati, le due mani strette intorno alle tempie, il partoriente sbatteva il capo qua e la sul guanciale, gridando con voce acutissima. Una bava sanguigna gli schiumava intorno alle labbra, e grosse lacrime gli solcavano il bruno e maschio viso, imperlandogli i neri baffi.
« Cicillo! Cicillo! “ grido la vecchia gettandosi sul letto, e, ficcate le mani sotto le lenzuola, soffiando, facendo schioccar la lingua, sconciamente rumoreggiando con le labbra, stralunando gli occhi, e traendo su dal profondo del seno gorgoglianti sospiri, andava travagliando intorno a quel gonfio ventre, che ora si alzava, ora si abbassava, don- dolando goffamente sotto la coperta di seta gialla.
Ogni tanto la vecchia urlava: « Cicillo! Cicillo! non aver paura, ci songo io acca! » e pareva che, afferrata con le due mani qualche schifosa bestiaccia nascosta sotto le coltri, tentasse di strozzarla. Cicillo giaceva a gambe larghe, schiumando dalla bocca, invocando:
« San Gennaro! San Gennaro aiutatemi! » e sbatteva la testa qua e la con cieca violenza, invano trattenuto da Georges che, piangendo e con soavissima tenerezza abbracciandolo, badava a impedire che si ferisse il capo contro i ferri del letto. A un tratto la vecchia si mise a tirare a se con ambo le mani qualcosa fuor del ventre di Cicillo, e finalmente con un grido di trionfo strappo, sollevo in alto, mostro a tutti una specie di mostriciattolo di colore scuro, dal viso grinzoso sparso di macchie rosse.
A quella vista, tutti furono invasi da una gioia furiosa, si abbracciavan l’un l’altra lacrimando, si baciavano in bocca, e saltando e gridando si stringevano intorno alla vecchia che, ficcate le unghie nella scura e rugosa carne del neonato, lo andava sollevando al cielo, quasi 1’offrisse in dono a un qualche Dio, e gridava:
« Oh benedetto! oh benedetto dalla Madonna! o figlio miracoloso! ». Finche tutti, come invasati, si misero a correre qua e la per la stanza, a fare il verso del bambino appena nato, a frignare, a piangere con voce acutissima allargando la bocca fino agli orecchi e stropicciandosi gli occhi con i pugni chiusi: « Ih! ih! ih! ih! ih!».
Strappato alle unghie della vecchia, e passando di mano in mano, il neonato giunse finalmente al capezzale di Cicillo: che, drizzandosi a sedere sul letto, il bel viso maschio e baffuto illuminato da un dolcissimo sorriso materno, apriva le muscolose. braccia al frutto delle sue viscere.
« Figlio mio! » grido, e afferrato il mostriciattolo se lo strinse al seno, se lo strofino contro il villoso petto, gli coprì il viso di baci, se lo cullo a lungo fra le braccia, canterellando, e alla fine, con un bellissimo sorriso, lo tese a Georges. Quel gesto, nel rito della « figliata », significava che 1’onore della paternità spettava a Georges: il quale, accolto nelle aperte mani il neonato, si mise a palleggiarlo, a vezzeggiarlo, a baciarlo, mirandolo con occhi ridenti e lacrimosi. Io guardai il bambino, e inorridii.
Era un’antica statuetta di legno, un feticcio rozzamente scolpito, e pareva uno di quei simulacri fallici dipinti sulle pareti nelle case di Pompei. Il capo aveva piccolissimo e informe, le braccia corte e scheletriche, il ventre gonfio enorme, e dal basso del ventre sporgeva un fallo di grossezza e di forma mai viste, quasi la testa di un fungo velenoso, rossa e sparsa di macchioline bianche. Dopo aver mirato a lungo il mostriciattolo, Georges se lo accostò al viso, appoggio le labbra sulla testa di quel fungo, e l’andava baciando e mordendo.
Era pallido, sudato, ansante, e gli tremavan le mani. Tutti gli si strinsero intorno squittendo, sollevando e agitando le braccia, e facendo a gara per baciare quello schifoso fallo, con un furore che aveva del meraviglioso e dell’orribile. In quel momento, dal fondo delle scale, una voce forte grido: « I spaghetti! i spaghetti » e un odore di pasta cotta e di salsa di pomodoro entro con la voce nella stanza.
A quel grido Cicillo getto le gambe fuori del letto, e appoggiata una mano sulla spalla di Georges, quasi abbracciandolo, con 1’altra pudicamente stringendosi al petto i lembi della camicia, si sollevo, poso i piedi sul pavimento: adagio adagio, con gesti graziosi, con flebili sospiri, con languidi sguardi, sorretto e sospinto da dieci braccia amorose, si mosse, e avvolto in una vestaglia di seta rossa, che la vecchia gli aveva gettato sulle spalle, si avvio gemendo verso la porta. E tutti gli tenemmo dietro.
Il pranzo incomincio. Prima vennero gli spaghetti, poi il fritto di triglie e di calamari, poi il manzo alla genovese, e da ultimo la « pastiera » dolce, che e una torta napoletana di pasta all’uovo ripiena di ricotta. Jack ed io, seduti in fondo alla tavola, osservavamo in silenzio, assai più turbati che divertiti, gli atteggiamenti dei varii personaggi di quella singolare commedia, aspettandoci da un momento all’altro che qualcosa di straordinario accadesse.
Tutti mangiavano e bevevano lietamente, invasi da un’ebbrezza che, dapprima languida, a poco a poco prendeva fuoco, diventava furore amoroso, gelosa rabbia. A un’incauta parola di Georges, che, rosso in viso, la fronte appoggiata sulla spalla di Cicillo, fissava i suoi amici, e rivali, con sguardo cattivo, Jeanlouis a un certo punto si mise a piangere, cosi mi par- ve, di dispetto: e quale non fu la mia meraviglia, quando mi accorsi che il suo dolore era vivo e sincero, e che vera- mente soffriva. Lo chiamai per nome, e tutti si volsero verso di me sorpresi e irritati, quasi avessi turbato una scena sapientemente architettata e recitata. Jeanlouis continuo a piangere a lungo, e non mostro di rasserenarsi se non quando Cicillo, alzatosi languidamente dalla sua sedia, gli si accosto, e baciatolo dietro 1’orecchio prese ad accarezzargli i capelli, parlandogli a voce bassa con uno straordinario accento di tenerezza, visibilmente mosso, tuttavia, più che dal desiderio di lenire il dolore di Jeanlouis, dal perfido piacere di eccitare la gelosia dei suoi rivali. Visto in piedi, e da vicino, Cicillo appariva assai più giovane di quanto non paresse disteso nel letto.
Era un ragazzo di non più di diciotto anni, e bellissimo. Ma quel che mi turbo, fu la perfetta naturalezza dei suoi modi e dei suoi accenti, quella sua aria di attore espertissimo d’ogni gioco scenico. Non solo non pareva intimidito, o vergognoso, della sua strana acconciatura, ne della parte che recitava, ma quasi si mostrava fiero del suo travestimento e della sua arte. Dopo aver alquanto vezzeggiato Jeanlouis, torno a sedersi in capo alla tavola, e in breve, fosse il calore del cibo, Fosse il fuoco del vino, o 1’aria viva del mare, pareva a poco a poco perdere alcunché della sua, se cosi si può dire, femminile pudicizia.
I suoi occhi si accendevano, la sua voce veniva facendosi forte, si arricchiva di timbri maschi e sonori; sotto la pelle, bruciata dal sole, i muscoli si sveglia- vano, e gia guizzavano per le spalle e per le braccia; le mani a poco a poco diventavan virili, le dita si facevan nodose e dure. Quel fatto mi dispiacque, sembrandomi che un tal cambiamento accentuasse in modo troppo scoperto ciò che di sgradevole aveva quella commedia, e i sottintesi che essa proponeva, o celava. Ma, come poi seppi, anche quel- la inattesa metamorfosi faceva parte della « figliata », era anzi il momento più delicato del rito: e non v’era «figliata” che non terminasse con la cerimonia, diciamo cosi, del babiamano. Cicillo, infatti, si mise a un certo punto a eccitar con la voce e coi gesti i commensali, alle parole e ai gridi affettuosi mescolando insulti e lazzi scurrili, finche, levatosi in piedi e con ampio gesto regale toltasi la cuffia dalla fronte come se si togliesse una corona, si guardo fieramente intorno, dischiuse le labbra a un sorriso di trionfo e di disprezzo, scotendo la testa dai neri capelli ricciuti, e all’improvviso, rovesciata con un calcio la sedia, si diede a fuggire verso , la casa, infilo la porta, lancio un riso stridente, e sparì. 
Tutti si alzarono, e con acuti gemiti di dolore e di rabbia lo inseguirono, scomparvero nell’interno della casa. « Come on! x mi grido Jack afferrandomi per un braccio e trascinandomi con se. Mi accorsi che era pallido, e che grosse gocce di sudore gli imperlavan la fronte. Salimmo di corsa le scale, e ci affacciammo alla porta. Cicillo era rovesciato sul letto a gambe larghe, e sollevato sui gomiti fissava Georges con uno sguardo nel quale luc- cicava qualcosa d’ironico e, insieme, di minaccioso.
Georges stava in piedi davanti a lui, immobile, ansando forte, quasi appoggiato con la schiena al gruppo dei suoi amici, che gli facevan forza col petto contro le spalle. A un tratto, con un grido che suono meravigliosamente orribile al mio orecchio, Georges cadde in ginocchio davanti a Cicillo, e con un mugolio d’amore e di dolore gli immerse il viso fra le cosce.
Con un moto lento, pesante, quasi cattivo, il giovane si volse, si stese con la faccia sul letto, offrendo le natiche magre e muscolose: selvaggiamente gridando e piangendo, Georges gli baciava, gli mordeva le natiche, e intanto si andava spogliando in furia, si sbottonava, si calava i calzoni, e tutti, gridando e piangendo, si sbottonavano, si calavano i calzoni, si buttavano in ginocchio, si baciavano, si mordevano 1’un 1’altro le natiche, trascinandosi carponi per la stanza con un mugolio puerile e feroce. Jack mi stringeva il braccio con forza terribile, tutto sbiancato in viso. Gli vedevo tremare le labbra, appannarsi gli occhi, gonfiarsi le tempie.
« Go on, Malaparte, go on! - balbettava, « oh! go on, Malaparte! prendilo a calci, prendilo a calci nel sedere, oh, Malaparte! non ne posso piu, Malaparte, prendilo a calci nel sedere, oh, go on, Malaparte, go on! »
« Non posso, Jack, » rispondevo, « proprio non posso, Jack, non sono che un italiano, un povero vinto, non pos- so prendere a calci un eroe. Georges è un eroe, Jack, un eroe della liberta, Jack, io non sono che un povero disgraziato, un povero vinto, non ho il diritto di prendere a calci nel sedere un eroe della liberta, Jack, non ne ho il diritto, ti giuro che non ne ho il diritto, Jack! ».
« Oh, go on, Malaparte! » balbettava Jack, tutto sbiancato in viso e tremante, « je m’en fous des heros, Malaparte, oh! je t’en supplie, jette lui ton pied dans le derriere, oh, Malaparte! jette ton pied dans le derriere a tous ces heros, io non posso, sono un Colonnello americano di Stato Maggiore, non posso fare uno scandalo, ma tu, Malaparte, oh, Mala arte! toi, tu peux, tu es un Italien, tu es chez toi, oh Malaparte, go on, Malaparte, go on!
« Non posso Jack, » gli dicevo, « non posso prendere a calci nel sedere quegli eroi della liberta, anch’io me ne fotto degli eroi, ma non posso, Jack, proprio non posso!
« Ah, tu hai paura! » balbettava Jack, stringendomi il braccio con forza.
« Si, ho paura, Jack, lo confesso, ho paura. Tu non sai di che cosa sia capace quella bella razza di eroi! tu non sai com’e vigliacca e malvagia quella razza d’eroi! Si vendicherebbero, mi manderebbero in galera, mi rovinerebbero, Jack, tu non sai come son vigliacchi e malvagi i. pederasti, quando si mettono a far gli eroi! »
« Hai paura! Anche tu sei un vigliacco! go on, you ba- stard! » balbettava Jack fissandomi in faccia con gli occhi scintillanti.
« Ho paura, Jack, lo confesso, ma non sono un vigliacco, Jack, sono un povero disgraziato, un vinto, Jack, e ho paura.
Anch’io muoio dalla voglia di pigliarli a calci nel sedere, Jack, ma ho paura. Tu non sai, Jack, com’è carogna quella razza d’eroi! »
”Oh, go on, Malaparte, go on!” - balbettava Jack ficcandomi le unghie nel braccio,
« oh, je t’en supplie, Malaparte, go on, go on! » « Non posso, Jack, non posso, ho paura. Tu sei un americano, sei un Colonnello americano, tu puoi far tutto quel- lo che vuoi, Jack, ma io non sono che un italiano, un povero italiano, vinto e umiliato, e non posso, Jack! Tu non sai quanto sono carogne e vigliacchi i pederasti, quando si mettono a far gli eroi della liberta! Oh, perdonami, Jack, ma non posso, proprio non posso, Jack! »
« Go on, Malaparte! Je t’en supplie, go on! » balbettava Jack. E a un tratto, buttandomi da parte con un pugno nel fianco, si getto su Georges, gli avvento un terribile calcio nelle grasse e rosee natiche.
« Salauds! cochons! » gridava Jack, e menava calci all’impazzata, roteando per 1’aria, come una clava, il mostriciattolo di legno che egli aveva strappato dalle mani di Cicillo. Jack appariva in- vaso da un cosi cieco furore, che io ebbi paura per lui. Mentre Georges e i suoi amici, con acuti strilli femminili, e con alti gemiti, s’erano ammucchiati per terra ai piedi del letto (il solo che non mostrava ne stupore ne paura era Cicillo: che, seduto sulla sponda del letto, guardava Jack con uno sguardo pieno di ammirazione, esclamando: « che bell’uomo! che bell’uomo! »), io afferrai Jack per le spalle, lo strinsi fra le braccia, e quasi sollevandolo di peso mi sforzavo di trarlo indietro, di spingerlo verso la porta.
Finalmente riuscii a dominarlo, a trascinarlo giù per le scale, a infilarlo nella macchina. Mi misi al volante, accesi il motore, voltai, imboccai la stradetta, e via di corsa.
« Oh, Malaparte! » gemeva Jack coprendosi il viso con le mani, « on ne peut pas voir ces chosesla, non, on ne peut pas! »
« Beato te, » gli dissi, « beato te che sei un uomo onesto, Jack! I like you, I like you very much. Sei proprio un bra- vo, onesto, innocente americano, Jack! You are a wonder-ful American, Jack! » Jack taceva, guardando fisso davanti a se. Mi accorsi che stringeva nel pugno qualcosa di nero e di rosso. « Che cos’hai in mano? » gli dissi. Jack apri il pugno: e sul palmo della mano aperta apparve 1’enorme, mostruoso fallo del neonato.
« I’m sorry, Malaparte, » disse Jack arrossendo, « non avrei dovuto fare quel che ho fatto. » « Hai fatto benissimo, Jack, » dissi, « sei un bravo ragazzo, Jack.
« Forse non avevo il diritto di far quel che ho fatto, » disse Jack, « non avevo il diritto d’insultarli. x « Hai fatto benissimo, Jack, » dissi. « No, non ne avevo il diritto, » disse Jack, « non avevo il diritto di prenderli a calci.
« Tu sei un vincitore, » dissi, « sei un vincitore, Jack. A winner! » « A winner? » disse Jack scagliando fuor del finestrino la cosa orribile che stringeva in pugno, « un vincitore? Non mi prendere in giro, Malaparte. A winner!».

Curzio Malaparte


ID: 1395

I MIEI GIOVANI AMICI

Angiole', da quale cielo sei sceso? L'immaginazione mi ha sempre fatto pensate a tutti i torresi come potenziali iscritti. Ma che entrassi Tu nel forum, questo no. E la cosa bella è che cadi come il cacio sui maccheroni. Un messaggio di Nicola Scognamiglio, torrese da Milano, postulava, poco fa, l'ingresso nel forum di giovani. Io ho dimenticato i "miei" giovani, quelli che mi hanno iniziato all'informatica. (Socrate e i suoi allievi) Ma non eravate efebi, qui bisogna mettere i puntini sulle "i" e le tacchetelle sulle "t".. Una volta tanto i ragazzi insegnano qualcosa ai "vecchi". Ho messo le virgolette perché io non sono affatto cresciuto, in un certo senso. E' colpa vostra, ragazzi. 
Mi sono commosso, Angelo, mi tremano le mani. Ho provato una gioia immensa nel sentirti qui.  Se Tu fossi venuto a casa mia, dopo tanti anni, non avrei provato la stessa emozione. Inoltre, mi hai dato un'idea fantastica, quella di recuperare tutti i ragazzi. Persino Romualdo, Roberto Castellano, oggi il re delle schede grafiche.  Vedo che Ti sei un po' intimidito, hai appena aperto bocca. Non fare caso alla complessità di certi messaggi, io sono un irriducibile esibizionista, un istrione, uno che spanne e mett' 'u sole". Parla pure come quando, in una sola sera, divoravamo io e Te tre panettoni. Ricordi? Quelli di tremila lire l'uno, da comprare dopo Natale "abbasciammare". Quasi da farci venire un accidente.  Ricordi mia moglie me lo diceva, ogni volta. Detto fatto. Mi venne l'accidente.
Ricordi quando venisti al Policlinico con Peppe che somiglia a Bin Laden. Si aggiusta sempre, ancora, la "mappatella"?. Ora ricordo il tuo periodo difficile. Ricordo tuo bambino che mi "scassò" la macchina tipografica. Il Vic 20, poi il Commodore, 64, poi l'Apple, poi l'Amiga 4000. Il PC, infine. Ricordi le sigle per Teletorre con l'Amiga 4000?. Le ultime le feci ad Antonio Abbagnano per le sue trasmissioni. Quanti errori ortografici e grammaticali in quelle sigle, fatte in fretta, in tempo reale.
Quanti epiteti ricevevo in tipografia, per telefono, il giorno dopo. Credevano di offendermi mentre noi ci "schiattavamo in corpo" dalle risate. Voi mi insegnaste, col vostro candore, a voler bene i "nemici", ma non solo nel senso cristiano, ma nel senso della maturità. Ciro Scognamiglio, 'u chiattunciello, Tullio, poverino, che è morto. Sai che è morta pure la figlia Marika? Ricordi quando coniavamo: "Ciro Scognamiglio sa fa cu i cunigli". Giggino Mari sa fa cu ll'avari. "Angelo Cozzolino sa fa cu i marrucchini". "Franco Balzano mette i perucchi mmiez'u ppane". Mario u fotografo che sa fa cu i filosofi. E così per tutti i giovani amici. Non ce n'era uno "che non se la facesse" con qualcuno. Quale spensieratezza. Che cosa bella la vita! Ha scritto una volta Mario Ascione, poi si è arenato. Domani gli telefono. Urge una rimpatriata. Un rimpasto, come dicono i politici. Dobbiamo aprire le finestre del forum, c'è un po' di aria viziata.  Perchè è passato il tempo? Porca l'oca. Angelo, sai come mi entusiasmo. Adesso posso pure morire. Domani ti telefono. 
Se non scrivi Tu nel forum lo chiudo, col permesso degli altri iscritti, naturalmente. Loro insistono nel ritenere Torreomnia una mia creatura, sono ostinati, non sanno che in cuor mio io ritengo Torreomnia un patrimonio della città, di tutti i torresi. Cosa c'entro io, cosa c'entrano gli altri con Torreomnia? Tutto si compra col danaro, tranne che l'amore e la libertà. Torreomnia è sinonimo di amore e libertà, non ha padroni e non si vende, si tramanda come retaggio nobile. Come eredità morale. Chi si allontana da Torreomnia decide di non entrare più in casa propria; butta le chiavi del suo parco, della sua abitazione e dorme all'addiaccio. L'orgoglio, secondo i vangeli, è peccato mortale. (Cf. Matteo, Luca, Giovanni e Sant'Agostino, In epistulam Johannis ad Parthos tractatus, 10, 4).  Angelo Cozzolino.ti abbraccio!

Luigi Mari

ID: 1359 

TI HO VOLUTO BENE COME L'APOSTOLO A GESU' CON GIUDA IN GIRO 

Aniello Langella scrive:  
non credo a nulla che non sia reale !! Intesi su questo? Io sono una persona semplicissima. Mi interesso solo delle cose che esistono . Questa storia del munaciello io non l'ho letta e non me ne frega proprio nulla. Io non ci credo. Se lo vedessi dovrei prima visitarlo con le mie mani e forse poi ci crederei. Io credo solo in una cosa che non vedo: Gesù Cristo. Per lui vivo e testimonio.  

Luigi Mari risponde:  
Premesso che Ti voglio bene più di prima osservo che Tu credi in Gesù Cristo perché duemila anni fa lo hanno visto in migliaia di persone. Infatti, il fatto stesso che Tu non abbia detto: “Io credo solo in una cosa che non vedo: Dio”, ha lo stesso valore psicologico di: “Io non credo al munaciello perché non lo vedo”. Piero Angela quando contestava, a ragione, i ciarlatani dell’occulto un giornalista gli disse: “Allora non dovrebbe credere nemmeno in Dio, visto che non lo vede. Angela rispose: Dio è un’altra cosa”. Frase che sarà venuta spontanea pure a Te. Dio, infatti, è un’altra cosa! 
Dove voglio parare, allora? Io non ho dubbi sull’esistenza di Dio, ne potrei avere (dico potrei) su Cristo che comunque era di carne ed ossa, e i suoi Vangeli suffragati dal "sinottico" sono stati copiati nei secoli da uomini, nella fattispecie dagli amanuensi, che davano un senso cristiano pure al Decamerone di Boccaccio, ma nemmeno questa ipotesi fantasiosa mi convince perché il "credere" è gnostico, si sente, quinti non ho dubbi neppure su di Lui.
Perché davvero la religione è  “un'altra cosa”. Anzi l’unica cosa.  A prescindere dall’Entità Dio, che con la mia persona ha poco da spartire se non nella sola dimensione della mia capacità di crederlo, assimilarlo dell’area del libero arbitrio, da quando ho riacquistato la fede, vent’anni fa, la mia psiche ne ha, tra l’altro, guadagnato in fatto di serenità e speranza.  Ma la cosa interessante è che vivo una vita più poetica, più diafana, più romantica, più tollerante da quando al rispetto per la scienza ho associato l’addio al mio vecchio scellerato irreversibile

scetticismo, ed ho lasciato un varco in me al trascendente. Parlo di magia bianca, chiaramente, e le relative parascienze. Chimere? Illusioni? “ 'O lusingo fa bene ‘a salute” si dice a Napoli. Credere, o ameno, tollerare Babbo Natale e la Befana, da grandi, equivale a tagliare la strada alla rigidità esistenzialista e in alcuni casi prevenire anche palliativi come psicofarmaci, alcool o droga. Io ho assistito a fenomeni inspiegabili quella volta. Ma i neurotrasmettitori della "fissazione" non sono entrati "in circolo" e sono andati via per conto loro. Ho alzato le mani e mi sono arreso. Infatti alle idee di totale, collettivo, scetticismo, del forum, io non ho dato un solo cenno prima d'ora. C'è stato pure chi mi ha detto verbalmente di essere stato scambiato per l'occasione per "piscitiello 'e cannuccia".  
Perciò siamo amici, Aniello. Oscar Wilde diceva: “odiamo quelli che ci somigliano”. L'unica cosa in comune è l'amore per Torre, ma molte delle nostre idee sono diametralmente opposte. Per fortuna, va appannaggio di un'amicizia più duratura.  La più grande offesa per il Signore è dire: adesso mi metto a credere in Dio per convenienza. Se c’è vado in Paradiso, se non c’è sarò un morto fesso ma non ho perso granché.   

Ma sul trascendente, sulla metapsichica, sulle fatine turchine e i Babbo Natale c’è tutto da guadagnare senza che nessuno si offenda.  Leggi gli episodi della sezione: “Personaggi anonimi” con uno spirito diverso. Sono certo che i prossimi Tuoi messaggi avranno meno rabbia, meno razionalità, meno intransigenza. Insomma Ti incazzerai di meno. Chiamerai plantari, radio e femori di bambola e di orsacchiotto le protesi dei Tuoi pazienti. A proposito, ho letto una statistica su un giornale femminile “Anna” (posso indicarvi il numero). La bambola Barbie ha raggiunto il primato di vendita nel mondo di due al secondo. Di bambini ne nascono uno al secondo. Come il business sta fagocitando la vita umana.  
Tuo amico Luigi 

ID: 1350

TEMPO ERA E TEMPO E'

Aniellus, una delle tue caratteristiche simpatiche è che ti butti a capofitto in tutte le argomentazioni, senza temere il perfezionismo. "Un Bodone in mezzi ai pixel". E' magnifica. Come Tu dicesti che era magnifica la mia "il fiato di mamma transustanziato in parole" in relazione ai nostri moti dell'anima presenti in questo forum. Gianbattista Bodoni fu colui che creò il famoso carattere Bodoni della stessa importanza del corsivo di Aldo Manuzio. E' azzeccata. Un carattere Bodoni in mezzo ai pixel dei 20.000 fonts della rete. Come la "particella di soreta" dell'aqua Lete che Tu decanti e che essa stessa canta (in occasione di S. Remo) Aoh, le pensano tutte!   
Ier sera, pensando la mia città, mi sono ricordato dell' "Limportanza di chiamarsi Ernesto" di Oscar Fingal O'Flahertie Wills Wilde, al secolo Oscar Wilde, che in questa sua commedia insisteva sui marcati difetti della sua epoca (il loro stato confusionale, la loro vacuità, l'incoerenza, il vivere in un mondo di parole e di formalismi), caratteri che al tempo di Wilde erano ristretti al mondo dell'aristocrazia e dell'alta borghesia londinese mentre oggi costituiscono quasi un marchio della modernità e sono diffusi in tutte le classi sociali. Wilde nacque, però a Dublino, nel 1854. Dublino ci ha dato pure Joyce. Una città, se ti venisse in testa di visitare, dove ti conviene dire che sei musulmano.  
L''autore de' "Il ritratto di Dorian Gray" denunciava l'apparire sull'essere, quindi i perbenismi, i pregiudizi, ecc. Scusami Dottore, se insisto sempre sullo stesso tasto. Scusami, Salvato', non pi piace sempre la stessa solfa dei revival. Oggi, caro Aniello, il testo do Oscar ci consente di ridere sulla giocosa incoerenza dell'uomo moderno, sui sogni e sulle sue aspirazioni, sulla sua incapacità ad esistere oltre l'apparenza. La critica di Wilde a questi vezzi è certo più che tollerante: questa straordinaria commedia è quasi una sarcastica celebrazione dell'apparire e del fingere. Ciò che si esalta tuttavia è solo l'intelligenza, la capacità di inventarsi e di mascherarsi.  C'è qualcosa di più attuale? I personaggi femminili Cecily e Grewdolen vogliono sposare un nome "Ernest", Quello che c'è sotto quel nome non conta nulla. 
E' così nella nostra città ancora nel 2005? "The Importance of Being Earnest". L’aggettivo e sostantivo inglese “earnest” deriva da un’antica voce germanica erre, che significa "ardore" e più specificamente "ardore in battaglia", in origine pertanto earnest (aggettivo) significava "combattivo", "ardente di furore bellico" (il contrario di "imbelle"): poi passò a significare piuttosto "fervido", "sincero", "dedicato". Nell’inglese moderno il sostantivo sopravvive soltanto in qualche frase fatta come to be in earnest, "fare sul serio"; l’aggettivo, che invece e di uso consueto, si applica a una persona coscienziosa, affidabile, che crede in quello che fa.  
Tutto questo per dire che mi viene il dubbio che mia moglie mi abbia sposato solo per il mio nome “Luigi” dal tedesco “guerriero”. Tu non portesti mai avere di queste incertezze, il nome Aniello non è contemplato in nessun posto. Ma è un bene, credimi.  Oscar. 44 anni di vita intensissima. Nel 1895, all'apice della carriera, fu al centro di uno dei processi più chiacchierati del secolo, quello che lo vide imputato di sodomia, (omosessualità attiva) uno scandalo senza pari nell'Inghilterra vittoriana. 
Oscar aveva avuto due figli e fino a 35 anni era al di fuori di ogni sospetto. Ma volle essere se stesso. Aborriva il perbenismo e l'ipocrisia. E questo gli costò caro. Anche se rimane per il mondo il maggiore scrittore inglese dell'era vittoriana.  Ora un processo del genere farebbe ridere persino a Torre del Greco, dove il grande Malaparte ambientò il famigerato capitolo "'A figliata". Il rituale di un figlio di legno che nasce dal ventre di omosessuali della marina di Torre del Greco. Tutti conosciamo la maestria narrativa del Malaparte, il suo stile inconfondobile. Altro che "temi allungati" di scuola media, quali sono alcuni libri locali.  Hai mai fatto caso, Aniello, che nessuno, a Torre, parla mai del Capolavoro "La pelle" tradotto in trentasei lingue? Il "bando morale della città di Napoli" è stato oramai scongiurato da tempo. A Torre forse ancora condanniamo la fiction, la fantasia di un autore, sol perché ambientata senza indulgenze nella nostra città e quel peggio sotto la scura dell'immoralità? 
Oscar Wilde stesso si difese dalle accuse al processo dicendo che la "morale" non era insita nell'arte.  Wilde, come ieri Pasolini e tanti altri, era ingombrante e scomodo. Condannato a due anni di lavori forzati, ne uscì finanziariamente rovinato e psicologicamente provato. Trascorse gli ultimi anni della vita a Parigi sotto falso nome (Sebastian Melmoth).   Ma quello che è più straordinario è che più mi dà gioia, è che poco prima della morte, avvenuta per meningite nel 1900, si convertì al cattolicesimo.  Tuo speleo-filologo

Luigi Mari
   

ID: 1701   

MALAPARTE DESCRIVE L'ERUZIONE DEL 1944

Signori, l'identificativo 1700 di Nicola Sannino nella discussione "IL VESUVIO E' UN DIAVOLO" mi ha indotto a stilare questa discussione per senso di responsabilità.  Si è in grado di ricostruire la storia del Vulcano degli ultimi 20.000 anni. Tutto sommato appena DUE catastrofiche eruzioni avvennero in OTTOMILA anni (da 20.000 a 12.000); da NOVEMILA anni fa sino all'anno 100 cristiano ve ne sono state appena altre TRE pliniane. Insomma in VENTIMILA ANNI solo CINQUE ERUZIONI ESPLOSIVE.
D’altra parte in 20.000 anni, secondo il vecchio testamento, c’è stata pure una fine del mondo, e mica ci siamo preoccupati? Stiamo qua!  Gli eventi catastrofici del Vesuvio, dunque, sono rari ed avvengono quindi alla distanza di centinaia di anni. Un’eruzione simile a quella del 1944 potrebbe essere, in fondo, un ottimo business per i torresi, ma speriamo che nemmeno una simile a quella rivenga, ad ogni buon pro.  Riporto la superba, insuperabile, lirica, straordinaria, dettagliatissima descrizione dell’eruzione del 1944 del grande scrittore Curzio Malaparte. Sono alcuni stralci delle pagine più belle della letteratura mondiale ambientate nella nostra zona, (come l’altro capitolo sempre del Libro “La pelle” ambientato a Torre del Greco: “Il figlio di Adamo” i cui stralci sono pure presenti in questo forum).  La descrizione di Malaparte non è solo geo-vulcanologica, ma profondamente umana, e straordinariamente cristiana e sociale, che riporta magistralmente nei particolari più minuti le reazioni, i moti dell’animo, le emozioni il terrore dei vesuviani in quei giorni, come solo la penna di un grande scrittore sa fare. L’eruzione fece, come è noto più danni architettonici che umani.  
NON LEGGERE QUESTA PAGINA E’ UN ...SACRILEGIO CULTURALE. Come per “Il figlio di Adamo” sono stati presi solo alcuni stralci del lungo capitolo per motivi di Copyrigt. "La pelle" di Curzio Malaparte. Ediz. 1967. Vallecchi editore. Un grande, discusso, amato, contrastato, apprezzato, vilipeso capolavoro della letteratura mondiade del XX secolo.  

L'eruzione del 79 D.C. fu descritta da Plinio; quella del 1944 da Malaparte. In comune c'è il punto di vista oculare: Torre del Greco.

Luigi Mari


IL GIGANTE DI FUOCO di Curzio Malaparte

"1944 (…) un grido terribile sconvolse la notte e un immenso bagliore di sangue illuminò il cielo a oriente; squarciato da un’immensa ferita, sanguinava, e il sangue tingeva di rosso il mare. L’orizzonte si sgretolava, ruinando in un abisso di fuoco. Scossa da profondi sussulti, la terra tremava, le case oscillavano sulle fondamenta, e già si udivano i tonfi sordi dei tegoli e dei calcinacci che, staccandosi dai tetti e dai cornicioni delle terrazze, precipitavano sul lastrico delle strade, segni forieri di una universale rovina.  Uno scricchiolio orrendo correva nell’aria, come d’ossa rotte, stritolate. E su quell’alto strepito, sui pianti, sugli urli di terrore del popolo, che correva qua e là brancolando per le vie come cieco, si alzava, squarciando il cielo, un terribile grido.  Il Vesuvio urlava nella notte, sputando sangue e fuoco. Dal giorno che vide l’ultima rovina di Ercolano e di Pompei, sepolte vive nella tomba di cenere e di lapilli, non s’era mai udita in cielo una cosi orrenda voce. Un gigantesco albero di fuoco sorgeva altissimo fuor della bocca del vulcano: era un’immensa, meravigliosa colonna di fumo e di fiamme, che affondava nel firmamento fino a toccare i pallidi astri. 
Lungo i fianchi del Vesuvio, fiumi di lava scendevano verso i villaggi sparsi nel verde dei vigneti. Il bagliore sanguigno della lava incandescente era così vivo, che per un immenso spazio intorno i monti e la pianura n’erano percossi con incredibile violenza. Boschi, fiumi, case, prati, campi, sentieri, apparivano nitidi e precisi, come mai avviene di giorno: e il ricordo del sole era gia lontano e sbiadito.  Si vedevano i monti di Agerola e i gioghi di Avellino spaccarsi all’improvviso, svelando i segreti delle loro verdi valli, delle loro selve. E sebbene la distanza fra il Vesuvio e il Monte di Dio, dall’alto del quale contemplavamo, muti d’orrore, quel meraviglioso spettacolo, fosse di molte miglia, il nostro occhio, esplorando e frugando la campagna vesuviana, poc’anzi quieta sotto la luna, scorgeva, quasi ravvicinati e ingranditi da una forte lente, uomini, donne, animali, fuggire nei vigneti, nei campi, nei boschi, o errar fra le case dei villaggi, che le fiamme gia lambivano d’ogni parte.  
(...) E non solo coglieva i gesti, gli atteggiamenti, ma discerneva fin gli irti capelli, le arruffate barbe, gli occhi fissi, e le bocche spalancate. Pareva perfino di udire il roco sibilo che erompeva dai petti. L’aspetto del mare era forse più orribile che non 1’aspetto della terra. Fin dove giungeva lo sguardo, non appariva che una dura crosta e livida, tutta sparsa di buche simili ai segni di qualche mostruoso vaiolo: e sotto quella immota crosta s’indovinava l’urgenza di una straordinaria forza, di un furore a stento trattenuto, quasi che il mare minacciasse di sollevarsi dal profondo, di spezzar la sua dura schiena di testuggine, per far guerra alla terra e spegnere i suoi orrendi furori.   
(...) Davanti a Portici, a Torre del Greco, a Torre Annunziata, a Castellammare, si scorgevano barche allontanarsi in gran fretta dalla perigliosa riva, col solo, disperato aiuto dei remi, poiché il vento, che sulla terra soffiava con violenza, sul mare cadeva come un uccello morto: e altre barche accorrere da Sorrento, da Meta. da Capri, per portar soccorso agli sventurati abitanti dei paesi marini, stretti dalla furia del fuoco.  Torrenti di fango scendevano pigri giù dai fianchi del Monte Somma, avvolgendosi su se stessi come nere serpi; e dove i torrenti di fango incontravano i fiumi di lava, alte nubi di vapore purpureo si alzavano, e un sibilo orrendo giungeva sino a noi, quale lo stridore del ferro rovente immerso nell’acqua. Un’immensa nube nera, simile al sacco della seppia, (e seccia e chiamata appunto tal nube), gonfia di cenere e di lapilli infocati, si andava strappando a fatica dalla vetta del Vesuvio e, spinta dal vento, che per miracolosa fortuna di Napoli soffiava da nord-ovest, si trascinava lentamente nel cielo verso Castellammare di Stabia. Lo strepito che faceva quella nera nube gonfia di lapilli rotolando nel cielo era simile al cigolio di un carro carico di pietre, che si avvii per una strada sconvolta.  Ogni tanto, da qualche strappo della nube, si rovesciava sulla terra e sul mare un diluvio di lapilli, che cadevano sui campi e sulla dura crosta delle onde col fragore, appunto, di un carro di pietre che rovesci il suo carico: e i lapilli, toccando il terreno e la dura crosta marina, sollevavano nembi di polvere rossastra, che si spandeva in cielo oscurando gli astri. Il Vesuvio gridava orribilmente nelle tenebre rosse di quella spaventosa notte, e un pianto disperato si levava dall’infelice città.  
(…) I muri di uno stretto vicolo erano percossi da un tal furore di luce vermiglia, uomini che camminavamo come ciechi, brancolando. Da tutte le finestre, gente ignuda si sporgeva agitando le braccia, con alte grida e striduli pianti chiamandosi l’un l’atro, e coloro che fuggivano per le strade alzavano il viso gridando anch’essi e piangendo, senza arrestar ne rallentare la precipitosa fuga. Per ogni parte gente d’aspetto miserabile e feroce, quali vestiti di stracci, quali nudi, accorreva portando ceri e torce alle Madonne e ai Santi dei tabernacoli, o inginocchiata sul lastrico invocava ad alta voce l’aiuto della Vergine e di San Gennaro, battendosi il petto e lacerandosi il viso con selvagge lacrime.  Come avviene in un grande e disperato pericolo, che un’immagine sacra, o il debole chiarore di una candela in un tabernacolo, richiama all’improvviso al cuore il ricordo di una fede da tanto tempo negletta, e riaccende speranze, pentimenti, timori, e la fiducia, da tempo negata, o dimenticata, in Dio, e l’uomo che aveva dimenticato Dio si ferma, e stupito, commosso, contempla la sacra immagine, e il cuore gli trema, tutto acceso d’amore, cosi avvenne a Jack.  Si fermo all’improvviso davanti a un tabernacolo, e si copri il viso con le mani, gridando: 
« Oh Lord! oh my Lord! » A quel grido rispose dal fondo del tabernacolo un pigolio, come d’uccelli. E udimmo un debole batter d’ali, un fremito come d’uccelli in un nido. Jack si ritrasse spaventato.  
« Non aver paura, Jack, » gli dissi stringendogli il braccio, «son gli uccelli della Madonna. In quei terribili anni, non appena le sirene d’allarme annunziavano l’avvicinarsi dei bombardieri nemici, tutti i poveri uccellini vesuviani andavano a rifugiarsi nei tabernacoli. 
Eran passeri, eran rondini, dalle piume arruffate, dai tondi occhi lucenti sotto la palpebra bianca. Si nascondevano in fondo ai tabernacoli come in un nido, stretti l’uno all’altro e tremanti, fra le statuine di cera e di cartapesta delle anime del Purgatorio.  
«Credi che li abbia spaventati?» mi domando Jack a voce bassa. 
E ci allontanammo in punta di piedi, per non spaventare gli uccellini della Madonna. Vecchi quasi nudi, dagli stinchi scarniti e bianchicci, camminavano reggendosi ai muri, la fronte avvolta di candidi capelli arruffati dal vento della paura, e venivan gridando monche parole, che mi parevan latine, ed eran forse magiche formule rituali di maledizione, o di esortazione a pentirsi, a confessare ad alta voce i proprii peccati, a prepararsi cristianamente alla morte.  
Torme di popolane dalla faccia stravolta procedevano in furia, quasi correndo, strette l’una all’altra come guerrieri all’assalto di una fortezza, e correndo gridavano alla gente, gesticolante e piangente alle finestre, insulti osceni e minacce, esortandola a pentirsi delle comuni infamie, poiché era finalmente venuto il giorno del giudizio, e il castigo di Dio non avrebbe risparmiato ne donne, ne vecchi, ne bambini.  A quegli insulti e a quelle minacce la gente dalle finestre rispondeva con alti pianti, con ingiurie atroci e imprecazioni nefande, cui dalla strada la folla faceva eco con gemiti e grida, tendendo i pugni al cielo e orribilmente singhiozzando. Finche la folla irruppe nella casa, e ne usci trascinando per i capelli ignude puttane e soldati negri sanguinanti e atterriti, che la vista del cielo in fiamme, delle nubi di lapilli sospese sul mare, e del Vesuvio avvolto nel suo orrendo sudario di fuoco, faceva umili come bambini spauriti. 
All’assalto ai bordelli si accompagnava quello ai forni e alle macellerie. Il popolo, come sempre, al suo cieco furore mescolava la sua antica fame. Ma il fondo di quel furore fanatico non era la fame: era la paura, che si voltava in ira sociale, in brama di vendetta, in odio di se stesso e di altri. Come sempre, la plebe attribuiva a quell’immane flagello un significato di punizione celeste, vedeva nell’ira del Vesuvio la collera della Vergine, dei Santi, degli Dei del cristiano Olimpo, corrucciati contro i peccati, la corruzione, i vizii degli uomini.  E insieme col pentimento, con la dolorosa brama di espiare, con l’avida speranza di veder puniti i malvagi, con l’ingenua fiducia nella giustizia di una così crudele e ingiusta natura, insieme con la vergogna della propria miseria, di cui il popolo ha una triste consapevolezza, si svegliava nella plebe, come sempre, il vile sentimento dell’impunità, origine di tanti atti nefandi, e la miserabile persuasione che in cosi grande rovina, in cosi immenso tumulto, tutto sia lecito, e giusto. Talché si videro in quei giorni compiere atti turpi e bellissimi, con cieca furia o con fredda ragione, quasi con una meravigliosa disperazione: tanto possono, nelle anime semplici, la paura, e la vergogna dei proprii peccati. 
(…) Il tumulto si faceva ad ogni passo più denso e furioso: poiché avviene delle commozioni popolari come nel corpo umano delle commozioni del sangue, che in una medesima parte tende a raccogliersi e a far violenza, ora nel cuore, ora nel cervello, ora in questo o in quel viscere. Dai più lontani quartieri della città il popolo scendeva a raccogliersi in quelli che fin dai più antichi tempi son reputati i luoghi sacri. Il tumulto era immenso, e prendeva talvolta l’aspetto di una sommossa. I soldati americani, confusi in quella spaventosa folla che li menava or qua or la nella sua rapina, voltandoli e percuotendoli, tal la bufera infernale di Dante, parevan anch’essi invasi da un terrore e da un furore antichi. Avevano il viso brutto di sudore e di cenere, le uniformi a brandelli. Ormai umiliati uomini anch’essi, non più uomini liberi, non più orgogliosi vincitori, ma miserabili vinti, in balia della cieca furia della natura; anch’essi inceneriti fin nel profondo dell’animo dal fuoco che bruciava il cielo e la terra.  Di quando in quando un cupo, soffocato rombo, propagandosi per le misteriose latebre della terra, scuoteva il lastrico sotto i nostri piedi, faceva sussultare le case.  Una voce rauca, profonda, usciva gorgogliando dai pozzi, dalle bocche delle fogne. Le fontane soffiavano vapori sulfurei, o gettavan zampilli di fango bollente.  Quel sotterraneo rombo, quella profonda voce, quel fango bollente, stanavano fuor delle viscere della terra la miserabile plebe che in quei dolorosi anni, per sottrarsi agli spietati bombardamenti, s’era rintanata a vivere nei meandri sotterranei 
(…)   Erano i giorni di Pasqua allieta ogni più squallida casa napoletana, ed e sacro, perché e l’immagine di Cristo. Quella «resurrezione», cui la coincidenza della Pasqua dava un senso atroce, il risorgere dal sepolcro di quelle torme cenciose, era segno sicuro di grave e imminente pericolo. Poiché ciò che non possono ne la fame, ne il colera, ne il terremoto, che e antica credenza ruini i palazzi e i tugurii, ma rispetti le grotte e i cunicoli scavati sotto le fondamenta vesuviane, potevano i fiumi di fango bollente con che il maligno Vesuvio godeva a stanar dalle fogne, come topi, quei poveretti.  
Quelle turbe di larve bruttate di fango, che sbucavan da ogni parte di sotterra, quella folla che, simile a un fiume in piena, precipitava schiumando verso la città bassa, e le risse, gli urli, le lacrime, le bestemmie, i canti, le paure e le fughe improvvise, le lotte feroci intorno a un tabernacolo, a una fontana, a una croce, a un forno, facevano dappertutto un orrendo e meraviglioso tumulto (…) Vesuvio rovente, delle fiumane di lava serpeggianti lungo i fianchi del vulcano, dei villaggi in fiamme (il riverbero dell’immane incendio si spandeva fino all’isola di Capri, errante all’orizzonte, fino alle montagne del Cilento bianche di neve), la folla cadeva in ginocchio: e alla vista del mare, tutto coperto di un’orribile pelle chiazzata di verde e di giallo come la pelle di uno schifoso rettile, con alti pianti, con urla bestiali, con bestemmie selvagge, invocava soccorso dal cielo.  
E molti si gettavano nelle onde, sperando di poterle calpestare, e miseramente annegavano, incitati dalle imprecazioni e dalle atroci ingiurie della plebe inferocita e gelosa. E la, di fronte a noi, tutto avvolto nel suo mantello di porpora, ci apparve il Vesuvio. 
Quello spettrale Cesare dalla testa di cane, seduto sul suo trono di lava e di cenere, spaccava il cielo con la fronte incoronata di fiamme, e orribilmente latrava.  L’albero di fuoco che usciva dalla sua gola affondava profondamente nella volta celeste, scompariva negli abissi superni. Fiumi di sangue sgorgavano dalle sue rosse fauci spalancate, e la terra, il cielo, il mare tremavano. 
(...) La folla che gremiva le piazze aveva visi piatti e lucidi, screpolati d’ombre bianche e nere, come in una fotografia al lampo di magnesio. Qualcosa di quel che d’immoto, di gelido, di crudele, ha la fotografia, era in quegli occhi sbarrati e fissi, in quei volti intenti, nelle facciate delle case, negli oggetti, e quasi nei gesti.  Il bagliore del fuoco batteva nei muri, accendeva le grondaie e i cornicioni delle terrazze: e contro il cielo sanguigno, di un tono cupo, teso al viola, quella gengiva rossa che orlava i tetti contrastava con effetti allucinanti. Turbe di gente traevano al mare sbucando dai cento vicoli che d’ogni parte sfociano nelle piazze, e camminavano col viso rivolto in alto, alle nere nubi, gonfie di lapilli infocati, che rotolavano in cielo a picco sul mare, alle pietre roventi che solcavano l’aria torbida, stridendo, come comete. Clamori terribili si alzavano dalla piazza.  E ogni tanto un profondo silenzio cadeva sulla folla: rotto di quando in quando da un gemito, da un pianto, da un grido improvviso, un grido solitario che subito moriva senza frangia d’eco, come un grido sulla nuda vetta di un monte. 
La in fondo alla piazza, torme di soldati americani facevan forza contro le cancellate che chiudono il porto, tentando di spezzare le grosse sbarre di ferro.  Le sirene delle navi invocavano aiuto con rauchi gridi lamentosi, sui ponti, lungo le murate, si schieravano in gran furia picchetti di marinaj armati, zuffe feroci si accendevano sui moli e sulle passerelle, fra i marinai e le torme di soldati, impazziti dal terrore, che davan l’assalto alle navi per cercar scampo dall’ira del Vesuvio. 
(…)  Qua e la, perduti nella folla, soldati americani, inglesi, polacchi, francesi, negri, erravano attoniti e sbigottiti, e quali stringevano per il braccio donne piangenti, cercando di farsi largo nella ressa, e pareva che le avessero rubate, quali si lasciavan trascinare dalla corrente, istupiditi dalla crudeltà e dalla novità dell’immane flagello. Negri quasi nudi, come se avessero in quella folla ritrovata l’antica foresta, si aggiravano nel tumulto con le froge dilatate e rosse, i tondi occhi bianchi sporgenti dalla nera fronte, attorniati da branchi di prostitute mezze nude anch’esse, o avvolte nei sacri paludamenti di seta gialla, verde, scarlatta, dei bordelli. E alcuni intonavano certe loro litanie, altri gridavano parole misteriose con acutissima voce, altri invocavano in cadenza il nome di Dio.  «Oh God! oh my God!» annaspando con le braccia su quel mare di teste e di facce stravolte, e tenere. Una tenebra verde avvolgeva la funerea campagna. Appena passata Ercolano una pioggia di fango caldo ci sferzò il viso per un lungo tratto. A picco sopra di noi, il Vesuvio ringhiava minaccioso, vomitando alte fontane di pietre roventi, che ricadevano sulla terra stridendo.   
(...) Poco prima di Torre del Greco ci sorprese un’improvvisa pioggia di lapilli. Ci riparammo dietro il muro di una casa, presso la marina. Il mare di Torre del Greco era di un meraviglioso color verde, pareva una testuggine di rame antico. Un veliero solcava lentamente la dura crosta del mare, dove la pioggia di lapilli rimbalzava con un crepitio sonoro.  Nel luogo dove eravamo si stendeva, a ridosso di un’alta roccia che lo riparava dal vento, un breve prato, sparso di cespugli di rosmarino e di ginestre fiorite. L’erba era di un color verde acerbissimo, un verde crudo e lucente, di un bagliore cosi vivo, cosi inatteso, cosi nuovo, che pareva appena allora creato: un verde ancora vergine, sorpreso nel momento della sua creazione, nei primi istanti della creazione del mondo. Quell’erba scendeva fin quasi a toccare il mare: che, per contrasto, appariva di un verde gia stanco, come se il mare appartenesse a un mondo gia antico, da remoto tempo creato. Intorno a noi la campagna, sepolta sotto la cenere, era qua e la bruciata e sconvolta dalla matta violenza della natura, da quel ritornato caos. Gruppi di soldati americani, il viso chiuso dentro maschere di gomma e di rame simili a celate di antichi guerrieri, andavano vagando per la campagna, e recavan barelle, raccoglievan feriti, avviavano gruppi di donne e di bambini verso una colonna di macchine ferma sull’autostrada. Alcuni morti eran distesi in margine alla strada, presso una casa diroccata: avevano il viso murato dentro un guscio di cenere bianca e dura, talché pareva avessero un uovo al posto del capo. Erano morti ancora informi, non del tutto creati, i primi morti della creazione. I lamenti dei feriti venivano fino a noi da una zona posta di la dall’amore, di la dalla pietà, di la dalla frontiera fra il caos e la natura gia composta nell’ordine divino della creazione: erano l’espressione di un sentimento non ancora conosciuto dagli uomini, di un dolore non ancora sofferto dagli esseri viventi pur mo’ creati, erano la profezia della sofferenza, che veniva fino a noi da un mondo ancora in gestazione, ancora immerso nel tumulto del caos. 
E li, su quel breve mondo d’erba verde, appena uscito dal caos, ancora fresco del travaglio della creazione, ancora vergine, un gruppo d’uomini scampati al flagello dormivano distesi sulla schiena, il viso rivolto al cielo. Avevano visi bellissimi, dalla pelle non bruttata di cenere e di fango, ma chiara, come lavata dalla luce: erano visi nuovi, appena modellati, dalla fronte alta e nobile, dalle labbra pure. Erano distesi nel sonno, su quell’erba verde, come uomini scampati al diluvio sulla vetta del primo monte emerso dalle acque.  Una ragazza, in piedi sulla riva sabbiosa, la dove l’erba verde moriva nelle onde, si pettinava guardando il mare. Guardava il mare come una donna si mira in uno specchio. Da quell’erba nuova, appena creata, ella nuova alla vita, ella appena nata, si mirava nell’antico specchio della creazione con un sorriso di felice stupore, e il riflesso del mare antico tingeva di un verde stanco i suoi lunghi, morbidi capelli, la sua pelle liscia e bianca, le sue mani piccole e forti. Si pettinava lentamente, e il suo gesto era gia d’amore. 
 
Una donna vestita di rosso, seduta sotto un albero, allattava il suo bambino. E il seno, sporgente fuor del corpetto rosso, era bianchissimo, splendeva come il primo frutto di un albero appena sorto dalla terra, come il seno della prima donna della creazione. Un cane, accucciato presso gli uomini addormentati, seguiva con gli occhi i gesti lenti e sereni della donna. Alcune pecore brucavano l’erba, e ogni tanto alzavano la fronte, guardando il mare verde. Quegli uomini, quelle donne, quegli animali, erano vivi, erano salvi. Lavati dei loro peccati. Gia assolti della viltà, della miseria, della fame, dei vizii e dei delitti degli uomini. Avevano gia scontato la morte, e la discesa all’inferno, e la resurrezione. (…)".

Curzio Malaparte
 

ID: 1811  
A CICCIO RAIMONDO

Premessa: ogni volta che ho fatto una sorta di apologia ad un iscritto ho perso l'amico e l'iscritto, speriamo che la cosa non si ripeta.  Carissimo Ciccio,  i cambiamenti li notano gli altri. Io che ho la fortuna e il piacere di vederti quasi tutti i giorni ho notato l'effetto in te del pausa-forum e del dopo-forum quotidiano. Questo salotto non migliora nè peggiora la gente, ma ne muta certamente lo spirito, rivela l'esitenza di altri sbocchi, di realtà latenti e sublimanti presenti in ognuno di noi.  Segue inciso generico non rivolto a Te:  La terapia del forum agisce per accumulo, più passa il tempo e più si vedono i risultati, come nella cura con gli antidepressivi, e come questi ultimi guai a smettere, solo il ciclo completo porta alla consapevolezza dei i risultati.  Chi entra nel forum Torreomnia lascia ogni speranza, come nell'inferno di Dante; se scappa rimane nel buio delle proprie incertezze e fragilità, (tutti ne abbiamo); cioè il cliché ambientale. Chi persevera, che è comunque diabolico, alla fine beneficerà dei frutti dell'arricchimento interiore, dovuto al confronto finalmente denudato, accorgendosi che molte cose non erano affatto da nascondere, perché sono "mostri da occultare" solo rispetto al perbenismo e al provincialismo, ma si rivelano candore rispetto all'Amore e alla Libertà quando di queste due vitali componenti se ne incomincia a sentire il sapore sotto il palato come un medicamento sublinguale che conosce la sola strada del cervello. Perché nel cuore Amore, Giustizia e libertà sono congenite, ma spesso latenti. Ripeto che non mi riferisco alla Tua persona, chiaramente. E' un discorso generale che non esclude neppure me, soprattutto. Arrossisco alla sola idea di pensarmi puro, impeccabile, superiore. Puntini sulle (i) e tacchetelle sulle (t).  Le tue peformance, non sempre "forunatamente accolte" solo per errore di "residenza natia", sono mutate in creratività e spirito con l'esperienza del forum. L'altra mattina in bottega hai "sconvolto", si fa per dire, mia figlia Virna col gigionesco, istrionico commento sulla "mucca pazza del forum". Eri caricato come un'intera artiglieria dopo il comando "fuoco", e come essa hai anfanato senza sosta. Sono riuscito solo a dire: Ciao, alla fine.  La tua chioma strapazzata faceva sembrare Einstein un pivello, un principiante in fatto di "immagine da barbassoro"; altro che lingua fuori famosa. Sprizzavi gioia e furore. E gli occhi. I tuoi più grandi "traditori". 
Quante "corna" Ti hanno fatto i Tuoi occhi, speriamo chiusi per sempre il più lontano possibile.  I tuoi occhi che sono la fiction vivente degli occhi di pazzo, nessuno spalanca o aguzza gli occhi come Te, Ciccio.. Potresti fare un concerto con gli occhi, scrivere un romanzo, con essi. Come fanno le donne a resistere a questo "essere umano completo ed autosufficiente che sono i tuoi occhi". 
Mucca non solo pazza, ma stupida o forse solo distratta, o perché forse non ha potuto subire la malìa nella prospicienza.  Potresti compire un coito con gli occhi, per questo mi guardo bene, su preterizione, chiamarle qui: "palle... degli occhi". La Tua cultura non sta nelle dita scrittorie o sulle labbra oratorie ma negli occhi che hanno labbra e corde vocali, hanno cuore, fedeltà, vocazione i tuoi occhi. Un internista, un cardiologo, un urologo lacrimista, portebbero manipolare quei due piccoli mondi di cristallo, quelle due sfere magiche di rivelazione del Tuo vero essere.  Ieri mattina erano dolci, "edulcorati" i Tuoi occhi, non già di pesce o di folle o d'intesa come al solito, alla presenza di "apparati muliebri" ben consistenti nella mia bottega; o di infante, come altre volte, eccezionali nell'aspergere il vero umore del momento. Ieri mattina i Tuoi fari dell'anima facevano a cazzotti col significato polemico delle Tue parole contro la "mucca pazza" che avresti voluto palpare ben bene, oppure macellare tra le mani, per trasformare le parti "significative" nelle partenopee frattaglie cotte più comunemente dette da noi "'u per e 'u muss". A proposito Ciccio, perché, le frattaglie cotte di maiale hanno come parti prelibate da "divorare col limone": la pelle (cientepelle), le labbra, la lingua, le mammelle, e i genitali, quasi un "coito gestroenterico". Tutto commestibile e squisito.  Guasta solo il piede utile probabilmente ai fecicisti) o, nel caso di macellazione di bue, il membro, che è altrettando prelibato (non è una battuta). Forse utile al terzo sesso.   Illuminami. 

Luigi Mari