CAPITOLO II
IL VESUVIO
E TORRE DEL GRECO
Il Vesuvio ha dato sfogo di tanto in tanto, lungo l’arco
dei secoli, alla sua potente ira, provocando con l’emissione di lava
lignea cenere, lapilli, gas, distruzione di abitati e di campagne, morte
di persone e di bestiame, mettendo in difficoltà attività economiche e
sociali, sconvolgendo e alterando il territorio circostante[7].
Alla prima eruzione storicamente accertata del ’79 d.C. ne faceva
seguire diverse durante il medioevo fino al 1139; risvegliandosi
improvvisamente dopo ben 492 anni, nel 1631.
Dopo vi furono altre 27 eruzioni (1649-54, 1660, 1682, 1685, 1689, 1694,
1696, 1697, 1698, 1701, 1704, ecc…) fino a quella fatale 1794, ed ancora
23 volte (1804, 1805, 1806, 1810, 1812, 1813, ecc…) fino al 1944,
soggiacendo poi ad un letargo che dura da poco ancora oggi. Di tutte
queste eruzioni, tre hanno interessato particolarmente la città di Torre
del Greco e cioè quella del 1631, del 1794 e infine quella del 1858-61.
La prima, quella del 1631 interessò soprattutto la parte occidentale del
territorio vesuviano e cioè quella rivolta verso il mare, sulla strada
regia, come si può vedere da una gouache di Claude Lorrain (Tav. 1) e da
un’antica stampa (Tav. 2), durante la quale il territorio fu alterato da
un vacuo di terra causato dall’arena, cenere e altra materia che
fuoriuscì in abbondanza dal vulcano e che fece ritirare il mare “che
batteva con le sue onde alla ripa del castello di circa centoventi passi”[8].
Furono colpite le fabbriche ed altri edifici non risparmiando nemmeno la
chiesa dedicata alla reina del cielo con il titolo di Monte Vergine.
Edificata dalla pietà del signor principe di Stigliano; solo il castello
rimase in piedi. Dopo l’eruzione la città venne ricostruita, come
appare in una stampa seicentesca pubblicata nella nuova guida di Napoli e
dintorni del Parrino (Tav. 3) dove è visibile chiaramente la parrocchiale
di S. Croce al centro che guarda il mare, e il castello a sinistra in
basso, e sopra una specie di altura, il comignolo di un campanile, a
destra che dovrebbe essere quello della chiesa della Trinità; le barche o
le feluche nel mare sottoposto, indicanti il commercio dei cittadini e le
varie attività riprese grazie a quei pochi abitanti che tornarono ad
abitarvi dopo la strage.Non manca che solo la vista del Vesuvio sul fondo,
e che non ci sappiamo spiegare “una volta che è così magna pars della
visuale collettiva”.
La ripresa della città, delle sue attività, dell’aumento della
popolazione è documentata anche in un’opera più tarda, si tratta della
“Vue du borg de Torre del Greco” (Tav. 4) , incisione nel “viaggio
pittoresco” del francese Saint-Non del 1780 circa. Si vedono al centro
la strada regia, che partiva da Napoli e arrivava fino a Reggio, che
attraversava Torre del Greco immettendosi nella porta di Capo Torre; a
sinistra la cappella della Madonna del principio di sopra: a destra, fra
gli alberi, il convento degli Zoccolanti con la chiesa della Madonna delle
Grazie, e la cupola della chiesa dell’ Immacolata Concezione[9].
“Sulla strada una mandria di suini, col suo premuroso comandante, va
muso a terra, fiutando un luogo più adatto che non l’interno del
distretto alle istintive esigenze”[10]. Degli uomini a cavallo si
dirigono all’interno della città. La porta, restaurata dal De Bottis
nel 1786 circa, andò distrutta, insieme alla cappelle nell’eruzione del
1794.
L’incisione è prima del 1784, verso il 1780, o presso a poco, misura la
grandezza di 35´21[11]. L’ultima eruzione vesuviana, che interessò
profondamente Torre, fu quella del 1794. La città fu distrutta per i tre
quarti dai fiumi di lava infuocata (Tav. 5) fuorescenti dai fianchi del
vulcano, nella fascia che direi pedemontana, ai limiti delle ultime
campagne; lave che colmarono valli, rasero al suolo tutto quanto
incontrarono sul loro cammino e ridisegnarono una nuova topografia del
territorio cittadino e Torre, dopo tale catastrofica eruzione (secondo
alcuni la trentatreesima dopo quella del 79 d.C.) sarebbe rimasta sepolta
sotto una coltre di lava, spesso alta più di venti metri, consolidatasi
con il raffreddamento, se un uomo eccezionale, don Vincenzo Romano, che
poi fu preposito curato di S. Croce, non avesse radunato intorno a sé i
torresi superstiti e dato inizio immediatamente alla ricostruzione della
città, rassicurandoli sul futuro. Infatti si deve considerare che
effettivamente da allora il Vesuvio non ha più infierito su Torre pur
avendo avuto continue eruzioni[12].
Non sappiamo come facessero quei bravi incisori del secolo scorso a
ritrarre un paese intero, e con una certa precisione vi ponessero tutto a
posto, guardandolo dall’alto in basso. La fantasia doveva avere non poca
importanza, una volta che dirigibili ed aeroplani erano ancora in fieri.
Certo la figura che presentiamo (Tav. 6) non ha tutti i requisiti per
dirsi precisa, come solo la fotografia potrebbe fare, ma certo è ben
fatta e si può scorgere non poca parte del paese rimasto incolume dal
fuoco, che corrisponde alla realtà.
Il campanile rimasto, il castello rispettato, la concezione attorniata, ma
non distrutta, la trinità, la parte del Carmine e la via apertasi di
Piscopia ci lasciano supporre che il disegnatore, venuto sopra luogo,
studiò bene il tutto per riprodurlo quanto gli era dato. Questo disegno,
tratto dall’originale esistente sull’archivio di Storia Patria, è
dunque di una rispettabile entità. L’originale è abbastanza più
grande della riproduzione, e pare che il disegnatore fosse Alessandro D’Anna
ed incisore il Morghen[13]. Il Morghen, il cui nome in tedesco vuol dire
giorno, fu ed è giustamente celebre per i lavori compiti a Napoli fra
essi, oltre a quello già riportato, v’è ancora quest’altro che
presentiamo e che insieme alla carta topografica, posta in ultimo, e ad un
cono vesuviano con la traccia dell’eruzione 1794 con i paesi dintorno,
forma tutta una tavola dell’epoca, interessante e precisa. L’interesse
della speciale eruzione dovette essere il motivo principale per formare
più disegni nella circostanza luttuosa.
Quest’altra veduta (Tav. 7) che qui si vede è ancora più dettagliata
dell’altra. Le proporzioni sono più simmetriche e il tutto viene a
completarsi per far ritornare alla mente in una visione quasi perfetta la
grave sciagura. Anche qui, senza ripeterci, si possono osservare i
principali edifici rimasti incolumi dal fuoco, e la dicitura sottostante
è ugualmente dell’epoca[14].
Una cosa che non è stata ancora detta, è che l’eruzione del Vesuvio
del 1794 avvenne di notte tra il 15 e il 16 Giugno con uno scoppio simile
a cento artiglierie, che chiamò tutti a guardare il Vesuvio, come si può
vedere dall’incisione di Jacob George Strutt sul disegno di Fridrich
Salathè (Tav. 8), con una colonna di fuoco che si innalzava, si apriva e
per proprio peso cadere a rotolare sulla pendice: saette lucentissimi e
lunghe uscenti dal vulcano si perdevano in cielo i globi ardenti andavano
balestrati a gran distanza, il rombo sprigionato in tuono. Il nuovo giorno
dimostrò cosa realmente era accaduto, perché fu visto il monte troncato
in cima, e quella inghiottita nelle voragini del vulcano. Furono sommersi
numerosi edifici, anche religiosi, anche se fu risparmiato, ma comunque
colpito, il Castello Baronale[15].
Il disegno fu realizzato da Salathè presumibilmente durante il periodo
trascorso tra Napoli e Roma (1815-1821) e successivamente tradotto in
incisione. Acquerellata riferendosi ad un avvenimento di cui l’autore
non poteva avere memoria l’opera appare tuttavia documento interessante
proprio per il ricorso dell’evento disastroso che a distanza di oltre
vent’anni, era ancora vivissimo in coloro che l’avevano vissuto. Nell’incisione,
tra gli elementi di fantasia, si distinguono alcuni dati reali, come la
Torre di Bassano, in primo piano, e una grande chiesa, Santa Croce intorno
alla quale si allarga il torrente infuocato che la sommergerà
completamente lasciando intatta solo la parte alta del campanile.
Un altro importante documento della catastrofica eruzione del 1794 è un’altra
stampa che si trova al museo nazionale di S. Martino dove si vede Torre
del Greco investita dalla lava ignea. Fra gli edifici rimasti si
distinguono la chiesa dell’Annunziata del Cappuccini con dei vicini
giardini, la parte orientale della città, il Campanile di S. Croce, la
chiesa dell’Immacolata Concezione, la chiesa della Madonna delle Grazie
col vicino Convento dei francescani Zoccolanti il Castello, mentre una
lunga lingua in mare ha formato la “Scarpetta” (Tav. 9) .
Al museo di S. Martino sono diverse le testimonianze sulla stessa eruzione
coma la gouache di un ignoto del sec. XIX (Tav. 10) . In questa veduta
ritornano tutte le componenti delle opere precedentemente descritte.
Infatti si può vedere che verso la base occidentale del gran cono, nel
luogo detto pedemontana, nelle antiche lave, si aprì una bocca, da cui si
vede sortire un torrente di fuoco. Presso di essa e nella sua medesima
direzione si scorgevano ancora altre quattro bocche, dalle quali erano
lanciate in alto con fremito del si roventi pietre che sembravano fiamme.
La lava prese nel principio la nel principio la direzione sud-ovest tra
Portici e Resina.
Una pendenza che la lava incontra nel suo corso la fece piegare ad ovest e
la diresse verso Torre[16]. Nello spazio di sei ore giunse al mare
percorrendo un’estensione maggiore di due miglia e devastando l’infelice
paese della Torre del Greco. Il desiderio di salvare dalla ruina un paese
si bello e si ricco avrebbe risvegliata l’idea di far uso di quel
medesimo artificio che si praticò per liberare la città di Catania nell’eruzione
dell’Etna del 1699, e che si rinnovò ancora nel Vesuvio nel 1694, di
deviare cioè il corso della lava, e preparargli un canale; ma la
rapidità colla quale scorreva e la confusione della notte non dava luogo
a riparo alcuno. Nel tempo dell’eruzione il fremito della montagna era
così grande, che tremavano le abitazioni di Napoli « in mezzo ad una
così grande eruzione la sommità del Vesuvio era tranquilla »[17].
Il giorno seguente, però, una nube esplosiva lo avvolse e l’eruzione
terminò con il crollo del conetto. Il gran cono fu di nuovo decapitato di
121 metri e l’orlo craterico assunse una forma inclinata, con cima verso
nord-est, che fu battezzata “punta del palo” e fu usata per molti anni
come riferimento per le misure geodetiche. L’eruzione del Vesuvio del
1794 fu una delle più violente in particolare per Torre del Greco. Come
è documentato in questa gouache di un anonimo (Tav. 11), la lava uscendo
dalle bocche apertesi sul fianco della montagna, le cosiddette voccole,
investì, orrendo fiume incandescente, Torre del Greco e giunse fino al
mare nel quale si inoltrò formando una vera e propria piattaforma.
I solchi e le stratificazioni prodotti in quell’occasione sono visibili
ancora oggi. Il torrente di lava attraversò Torre del Greco, dove,
incalanatosi lungo le strade, raggiunse un’altezza media di oltre tre
metri: la città fu per quattro quinti distrutta, nella massa di lava e
detriti emergevano qua e là solo le cime di alcune case, anche la
cattedrale di S. Croce fu travolta ed abbattuta: si salvò solo il
massiccio campanile barocco a bugnato in pietra del Vesuvio e mattoni
malgrado fosse stato interamente circondato e oppresso dal fiume lavico.
E’ quasi incredibile che in simile catastrofe si contasse la perdita di
non più di quindici vite umane su circa diciottomila abitanti[18]. In
questa gouache (Tav. 12) è fissata la fase terminale della famosa
eruzione del Vesuvio che raggiunse una sua particolare intensità perché
chiudeva un ciclo di attività vulcanica persistente. Tra il 15 e il 24
Giugno di quell’anno, la città di Torre del Greco venne invasa e
distrutta dalla lava, fuoriuscita da bocche eccentriche occidentali del
vulcano, che raggiunse velocemente il centro abitato inoltrandosi poi
verso il mare, emerge in primo piano tra le fumate colanti, il massiccio
campanile della chiesa di Santa Croce e si scorge in lontananza la sagoma
della Basilica di S. Maria a Pugliano. Questa gouache appartiene ad un
ignoto probabilmente attivo, come denotano certe sigle stilistiche
caratteristiche, per il mercante J.C. Glass, noto venditore di stampe e
gouaches che aveva bottega a Napoli al largo San Ferdinando, di fronte al
teatro di S. Carlo. La gouache è ora conservata nel museo vesuviano di
Pompei[19]. Per concludere il discorso sull’eruzione del 1794 si propone
una bellissima gouache di Saverio della Gatta (Tav. 13), che si trova in
una collezione privata a Roma, che ritrae l’inizio della catastrofe e
con Torre del Greco probabilmente vista da Napoli e dai napoletani che
avvertirono l’evento nella notte del 12 Giugno alle ore 2,45 grazie a
una forte scossa di terremoto seguita da un’altra leggera scossa verso
un’ora e un quarto di notte 8 ore 21,15 circa) della domenica 15 Giugno.
Dall’enorme squarcio salirono al cielo, con fragorosissime esplosioni a
considerevoli altezze, pietre incandescenti come globi di fuoco e poco
dopo si vide il magma che, fluidissimo, sembrava prendere la direzione di
Resina. L’illusione durò ben poco per i torresi che avevano scambiato
il fronte della lava, per il fianco. Torre del Greco fu distrutta e nel
1796 Ferdinando IV di Borbone cercò di convincere gli abitanti di Torre
ad abbandonare definitivamente la cittadina con l’impegno di
ricostruirla in luogo più sicuro e protetto dalla minaccia del vulcano,
ma essi si rifiutarono ed anzi dicono le cronache, mentre la lava era
ancora fumante, erano già intenti all’opera di ricostruzione. Fedeli al
motto presente nello stemma della loro città, post fata resurgo[20]. Per
molti anni dopo l’eruzione, per Napoli circolava ancora un opuscoletto
dal quale risultava che non il « gran Santone S. Gennaro, ma addirittura
iddio fece crepare la montagna » deviando il magma su Torre del Greco per
salvare Napoli allora fu coniato l’antico detto torrese: «Napoli fa i
peccati e la Torre li paga »[21].
A metà tra l’enfasi campanilistica e la piccola saggezza popolare. A
causa della disastrosa eruzione cambiò quindi anche la morfologia della
città che, come si può vedere dalla “pianta della città di Torre del
Greco”, era divisa in cinque quartieri: Capo la Torre, Vico del Mare,
Borgo e Casale Nuovo, Malafronti e Falanga (Tav. 14). La stampa che fu
realizzata dall’incisore Morghen su disegno di Antonio Ciofi è una
dimostrazione iconografica di tutti gli effetti prodotti dall’eruzione
colle dovute corrispondenti descrizioni. La tavola di cui fa parte anche l’incisione
di pag. 107 (stampa Morghen) è composta da tre quadri e due leggende e
illustra, attraverso le immagini e le spiegazioni, la catastrofica
eruzione del 1794, durante la quale gran parte dell’abitato venne raso
al suolo.
La planimetria è descritta con minuzia topografica, è indicato il
percorso della lava dalle falde del vulcano fino a mare. La lava,
evidenziata dalla zona scura, coprì 10.906 metri superficiali di
territori coltivati e fece un danno di lire 1.094.800. Le didascalie
forniscono un elenco dettagliato delle opere distrutte e dei danni
provocati dall’eruzione[22].
La stampa del Morghen è ora al museo vesuviano di Pompei. L’ultima
eruzione che interessò molto da vicino Torre del Greco fu quella del
1861, anche se qualche anno prima i torresi avevano attraversato momenti
di paura. Infatti il Vesuvio era stato a riposo fino al 1858, anno in cui
riprese l’attività con una lunga eruzione effusiva definita silenziosa
ed una delle più lunghe. Iniziò il 27 Maggio 1858 verso le ore 10 del
mattino senza rumore o scossa alcuna. Sul piano delle ginestre si aprirono
undici bocche, come è possibile vedere da una gouache, di Gaetano Duse e
Giovan Battista Gatti del 1858, che si trova ora al museo di San Martino (Tav.
15) e suoi particolari (Tavv. 16-17), dalle quali uscì un magma molto
viscoso che progredì molto lentamente, formando le spettacolari « corde
» che si possono osservare ancora oggi lungo la strada che porta all’osservatorio.
Lo scorrere lento di queste lave durò dal 27 Maggio 1858 al Marzo del
1860 dopo aver devastato 440 mila metri quadrati delle campagne di
Resina[23]. E arriviamo dunque all’eruzione del 1861, che ebbe inizio l’8
Dicembre alle ore 9 del mattino quando in Torre del Greco si avvertirono
delle leggere scosse che, fino alle ore 15, andarono aumentando di
frequenza e intensità. Alle ore 16 dopo una forte scossa, a due
chilometri dall’abitato, si aprirono nove bocche dalle quali con
fragorosi boati si alzò una colonna di fumo e cenere che oscurò l’aria
estendendosi fino a Capri. Solo verso sera comparve sulla cima del vulcano
un pino di fumo e cenere solcato da frequenti saette.
La lava sgorgata copiosa dalle nove bocche si diresse decisamente verso l’abitato
di Torre del Greco, ma si fermò a poca distanza dalle prime case[24]. Il
suolo si spaccò su una direttrice che dalle bocche attraversava il centro
abitato e si inoltrava nel mare per circa un chilometro. La notte dell’11
una forte scossa fece ribollire il mare, altre case crollarono e in altre
si allargarono di più le lesioni nei muri. Il 17 Dicembre, verso le ore
13, dal cratere terminale si elevò un gran pino intersecato da numerose e
frequenti saette, il tutto accompagnato da cupi boati. Nella notte del 23,
dopo due scosse, il vulcano incominciò ad emettere abbondante fumo e
cenere e ciò continuò anche nella vigilia e nel giorno di Natale[25].
L’eruzione cessò il 31 Dicembre e, se Torre del Greco non fu distrutta
dalla lava, come nel 1794, fu diroccata quasi interamente dal violento
bradisismo e dai terremoti come è documentato dal bellissimo quadro di
Michele Cammarano che si trova al museo di San Martino. L’artista riesce
a riprodurre quel terremoto con una risultanza oltremodo notevole per
modernità e immediatezza espressiva. Inutilmente cercheremmo in tutto il
romanticismo italiano altrettanto vigore, foga, disperazione, fulmineità
delle immagini transuete, piacere della pittura, come il senso di una
salute fisica che esplode in forme energetiche all’atto stesso di
fissare in una istantanea folgorante la più fuggevole delle fantasie[26]
(Tav. 18).
NOTE
7
C. Di Cristo, Torre del
Greco. Storia, tradizioni e immagini, Nuove Edizioni 1985, p. 71.
8
C. Di Cristo, Torre del
Greco. Storia, tradizioni e immagini, Nuove Edizioni 1985, p. 71.
9
R. Raimondo, Uomini e fatti
dell’antica Torre del Greco, opera postuma, p. 176.
10
V. Di Donna, L’Università di Torre del Greco nel sec. XVIII, Ediz. Numerata di
300 copie, p. 320.
11 V. Di Donna, L’Università
di Torre del Greco nel sec. XVIII, Ediz. Numerata di 300 copie, p. 20
12 R. Torrese, Torre del Greco tra storia, cronache e leggende, Post fata resurgo,
pp. 37-38.
13
E. Di Gaetano, Torre del Greco nella tradizione e nella storia, Antiche
denominazioni, vol I.
14
E. Di Gaetano, Torre del Greco nella tradizione e nella storia, Antiche
denominazioni, vol I.
15
C. Di Cristo, Torre del Greco. Storia, tradizioni e immagini, Nuove Edizioni 1985.
16
S. Loffredo, « … Turris octavae alias del Greco… », Editoriale
Comunicazioni Sociali - E.C.S. Napoli,
17
A. Mazziello (a cura di), Vesuvio,
Franco di Mauro editore, p. 43.
18 R. Raimondo, Itinerari
torresi e cronistoria del Vesuvio, Edizione La Torre pp. 357-361.
19
R. Raimondo, Itinerari torresi e cronistoria del Vesuvio, Edizione La Torre p.
358.
20 G.
Alisio, Napoli com’era nelle gouaches del 700 e 800, p. 191.
21
R. Raimondo, Itinerari torresi e cronistoria del Vesuvio, Edizione La Torre p.
356.
22
R. Raimondo, Uomini e fatti dell’antica Torre del Greco, opera postuma, 1985 p.
212.
23 A. Mazziello
(a cura di), Vesuvio, Franco di
Mauro editore, pp. 57-59.
24
C. Di Cristo, Torre del Greco. Storia, tradizioni e immagini, Nuove Edizioni 1985,
pp. 84-87.
25
R. Raimondo, Itinerari torresi e cronistoria del Vesuvio, Edizione La Torre p.
373.
26
R. Causa, Napoletani dell’800,
Montanino Editore, p. 53.
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