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CAPITOLO III

LA COLLINA
DEI CAMALDOLI


Vent’anni era durata la costruzione della chiesa sulla cima del piccolo cono di lava preistorica alto 185 metri, un decennio avanti la tremenda eruzione del 1631. Poi dopo quasi un secolo, tormentato da frequente e talvolta quasi annuale attività del Vesuvio assai minacciosa per Torre del Greco, nel 1716 la costruzione del convento dei Camaldolesi. Eccezionale balcone aperto sul Golfo napoletano e sorrentino, ma anche luogo pressoché naturalmente deputato ad accogliere eremiti del saio di ruvida lana bianca e dalla lunga barba e cenobiti dal volto rasato e lo scottino bianco senza mantello, dell’ordine fondato da S. Romualdo da Ravenna, appena dopo l’anno mille, per rendere più austera e rigida la regola benedettina. Camaldoli, dal primo convento eretto presso Arezzo su un terreno donato dal Conte Maldolo, si chiamerà ogni monastero nel quale i confratelli di Papa Gregorio XVI esercitano da allora la regola istitutiva di studio, astinenza e carità. Principi tradotti in altrettanti meriti storici dai Camaldolesi, pronti ad aprire ospizi per i poveri accanto al convento, a difendere con accanimento il patrimonio forestale, a creare e conservare biblioteche ed archivi.
Ai Camaldoli di Torre del Greco, restaurato alla metà del nostro secolo con interventi che hanno corretto l’antica linea dell’edificio conventuale e del campanile, è rimasto vivo quest’ultimo compito, assunto ora dal centro studi dei padri redentoristi di S.Alfonso dè Liguori, che - in più generale analogia d’intenti e parziale somiglianza di regole - vi è ospitato.
Più difficile la difesa del patrimonio naturale e ambientale, investite come sono state le zone di Torre dalla caotica espansione edilizia che nei pressi di Camaldoli ha visto infittirsi gli insediamenti residenziali. Unica resiste, inascoltato monito a cui percorre l’autostrada che quasi la sfiora, la collinetta verde di piante e vigneti sotto il biancheggiante complesso religioso. Ancora più verde in verità, di quanto non è possibile vedere in questa antica stampa (Tav. 19). Ma così al tramonto, rossiccia la terra per le ceneri della cinquecentesca eruzione di cui racconta Ambrogio Leone Nolano, in un silenzio profondo che faceva esplodere voci,, suoni, rumori, dovette godere e visitare questo paesaggio arcaico Giacomo Leopardi nell’ultimo anno della sua vita tormentata, trascorso in gran parte in un « casinuccio » sopra Torre del Greco, vicinissimo ai Camaldoli. Quello che l’avvocato Giuseppe Ferrigni, cognato del sodale fedelissimo Ranieri, aveva messo a disposizione del poeta[27].
Come oggi, anche nel ‘700 doveva essere apprezzata la vista speciale dei Camaldoli, la sua posizione si prestava a caratterizzare i dintorni del Vesuvio, da cui il colle trasse origine in tempi remoti, ed è perciò che Hamilton in questa gouache (Tav. 20) ha cercato di conservare l’antico aspetto dei Camaldoli. In essa si vede la lussureggiante vegetazione all’intorno, un tratto di strada sotto posto con personaggi della campagna che si recano nei dintorni, e la chiesa con la grandiosa casa dei monaci, sovrastante il colle.
Non manca il Vesuvio che imperturbabile getta fuori il piumetto cenerognolo[28]. La veduta della collina dei Camaldoli di Torre del Greco, con l’eremo dedicato a San Michele (Tav. 21), inserita nel primo volume dell’opera del Saint-Non, fu disegnata da Chatelet e incisa ad Acquaforte da Desmoulins, completata a bulino da Née[29].
E’ possibile notare una rarefatta atmosfera vespertina che caratterizza questa veduta, forse un cono parassitico del Vesuvio fuoriuscito al tempo di qualche antica eruzione. Dal 1602 la collina, con l’antica chiesa dedicata a San Michele Arcangelo, venne ceduta ai padri Camaldolesi che vi stabilirono un loro cenobio in dipendenza dei Camaldoli di Napoli e nel 1741 riedificarono la chiesa nuova, che vediamo qui raffigurata. Le figurette delineate con tono corsivo e il modo di rendere le fronde degli alberi con tocchi di colore chiaro che punteggiano le foglie rendono la veduta molto gradevole e particolare[30].
Anche Achille Gigante fu attratto da questo scenario, come si vede in un suo magnifico disegno (Tav. 22) dove è evidente la volontà dell’artista di mettere in risalto la collina piuttosto che il Vesuvio che le è alle spalle e che è qui appena abbozzato. La collina dei Camaldoli di Torre, che doveva esistere già prima dell’eruzione del ‘79 d.C. come attestano i ritrovamenti di costruzioni romane, è la più alta delle formazioni vulcaniche eccentriche, e per altezza (raggiunge i 180 m.s.m.) e per posizione domina il territorio dalle pendici del Vesuvio al mare, dai confini occidentali del comune ai confini orientali[31].
Il Gigante volle riportare al sensazione di chi guarda in direzione dei Camaldoli con la collina che presenta fianchi più ripidi verso meridione, mentre nel complesso degrada con una certa dolcezza fino a raggiungere il punto di contatto con quella parte delle pendici del Vesuvio che presentano un più leggero declino. La collina dei Camaldoli, oggi chiamata Colle S. Alfonso, ma che, per l’esattezza, è monte Sant’Angelo, ha una superficie di circa 100 moggia ed è ricca di vegetazione, specialmente nella parte settentrionale, proprio dove una strada carrozzabile l’attraversa raggiungendone la cima che per i modesti ritrovamenti archeologici si presume di antica formazione[32].
 

NOTE

28  S. Loffredo, « … Turris octavae alias del Greco… », Editoriale Comunicazioni Sociali - E.C.S. Napoli,  p. 288.

29  R. Raimondo, Itinerari torresi e cronistoria del Vesuvio, Edizione La Torre p. 149.

30  R. Raimondo, Itinerari torresi e cronistoria del Vesuvio, Edizione La Torre pp. 150-151.

31  Viaggio da Napoli a Castellammare, Napoli, Stamperie dell’Iride, 1845 p. 62.

32  N. Palomba, Torre del Greco e le pendici del Vesuvio, Editore D’Amelio, 1998 pp. 16-17.