Le origini del Castello di Torre del Greco sono alquanto vaghe. Che
esistesse insieme alla Torre, lo afferma il torrese Pietro Balzano nella
sua monografia « del corallo, della sua pesca e della sua industria nelle
due Sicilie », e dice appunto che l’edificio fu fatto costruire o, com’è
più verosimile, largamente ampliato da Alfonso, essendoci innanzi una
torre fatta costruire da Federico II[33]. La sua forma antica era
quadrangolare e chiudeva dentro a sé un largo spiazzo assai più ampio di
quello di Castel Capuano in Napoli, ma privo di porticati.
Questo castello, situato presso la riva del mare fu la villa d’Alfonso I
che lo aveva espugnato con una flotta il 26 Dicembre 1441, dopo aver
conquistato Pozzuoli, quando era ancora tenuto dagli angioini. Alfonso si
innamorò subito del luogo, ma anche di Lucrezia d’Alagno figlia di Cola
d’Alagno, di una nobilissima famiglia d’Amalfi, che abitava in una
splendida villa in prossimità del Castello.
A causa dello scandalo, essendo re Alfonso già sposato con Maria di
Castiglia ed essendo recidivo nell’adulterio per aver avuto una
relazione con la cognata Caterina moglie del fratello Enrico, Cola d’Alagno
restituì la sua spada e si ritirò in una sua villa a Torre
Annunziata[34]. Il disegno di Eduardo Dalbono (Tav. 23), che rappresenta
il Castello Baronale ai tempi di Lucrezia d’Alagno e Alfonso I,
riprodotto da un antico disegno con la parte centrale tuttora esistente,
vuole dimostrare che se la torre fu eretta da Federico II, anche le
fortificazioni esistevano ai tempi dello svevo e sicuramente anche al
tempo di Alfonso che se qualcosa dovette fare, lo fece verso l’interno,
cioè nella parte meno pericolante e più lontana dal ciglio della rupe
prospiciente il mare che, non è da escludersi, crollò il 5 Dicembre 1456
per il violentissimo terremoto di quel giorno, vivendo ancora re Alfonso.
Lucrezia e Alfonso tentarono anche di sposarsi con l’aiuto del Papa
Callisto III che non ne volle sapere, sperarono anche nella morte della
malaticcia Maria di Castiglia, morte che invece colse Alfonso durante il
banchetto di capodanno del 1458. La storia finì con Lucrezia che si fece
in disparte ritirandosi a Torre Annunziata. Il 15 Settembre 1458, re
Ferdinando I d’Aragona - figlio naturale di Alfonso - concesse a
Francesco Carafa l’ufficio di governatore e capitano a giustizia e
guerra dei casali di Torre Ottava, Resina e Portici con il Castello o
Fortellezza sino a Torre Ottava, e che detto Castello essendo debole assai
senza fortificazioni, dirupo e cadente, non era più servibile per la
sicurezza dello stato del regno bisognandovi di riparazioni per renderlo
più forte.
Fu Francesco che però poté disporre e far riparare i danni causati dal
terremoto del 1456[35]. Solo nel Gennaio del 1467 egli poteva vedere
appagato il suo desiderio con l’offerta di 100 libbre di cera lavorata,
ottenendo nell’Aprile seguente dal re Ferdinando I la conferma “in
perpetuum”, per sé e per i suoi eredi e successori, del possesso del
Castello, con l’obbligo di ripararlo a sue spese. Egli infatti, lo
ristrutturò aprendo anche la sottostante strada del barbacane per la
costruzione dei contrafforti di sostegno.
Da allora possedettero pacificamente la dimora gli utili padroni di Torre
e comarca[36]. Col riscatto del 1699 il Castello passò in comune possesso
delle tre università di Torre, Resina e Portici. Essendo ancora tutto
deteriorato, l’edificio nel 1711 fu messo in vendita e acquistato per
intero, per sentimento patrio, dall’università torrese diventando sede
del governatore e alloggio dei soldati della regia corte e dal 1743 al
1756 anche dei Baroni Langella.
In questa stampa, ricavata dalla pianta del luogo destinato per le
operazioni militari del campo di piacere di S.M.1773, e raffigurato il
Castello della Torre dello Griecho (Tav. 24), tutta ben murata, merlata
nella sua ampiezza e turrita con le mura di Capo la Torre[37].
Nel 1851 il Castello divenne sede del Municipio e subì in quel periodo
una decisiva trasformazione: l’ala orientale che con la porta d’ingresso
chiudeva parte del cortile arrivando fino all’orlo della scarpata, come
è ben visibile nel quadro fantastico di Nicola de Corsi dov’è in
risalto il promontorio torrese col palazzo municipale, venne demolita con
la conseguente creazione di un piazzale[38] (Tav. 25).
Rimase in piedi, trasformata in palazzo ottocentesco, solo l’ala
settentrionale sul lato del barbacane che vediamo oggi come si può vedere
da questo magnifico disegno di Achille Gigante, artista che si mise in
evidenza nella seconda metà dell’ottocento insieme ai fratelli
Giacinto, ed Ercole, degni rappresentanti della scuola di Posillipo, della
quale l’iniziatore fu l’olandese Anton Pitloo nel secondo ventennio
del XIX secolo[39]. Nel disegno, che da una visione della zona che quasi
del tutto simile ad oggi, compare anche la fontana delle cento cannelle di
cui parleremo in seguito (Tav. 26). C’è una stretta relazione tra il
palazzo Baronale e la festa dei quattro altari. Quest’ultima venne
istituita a Torre del Greco nel 1699, per celebrare la liberazione della
città dal luogo dei Baroni Spagnoli negoziata con denari contanti.
Non riuscendo però ad arrivare a 100.000 ducati, gli abitanti di Torre
rappresentanti da una ambasceria di pescatori e borghesi, si rivolsero al
re di Spagna, Carlo II ottenendo una riduzione ma con l’obbligo di
eleggere essi stessi un Barone per la trasmissione dei diritti feudali e
che fu deciso nella persona di Giovanni Langella[40]. L’ambasceria
mandata a Madrid per negoziare l’indipendenza dei comuni del Vesuvio era
ritornata a Torre il giorno del Corpus Domini, festività religiosa che fu
istituita nel 1264 dal Papa Urbano IV per l’esaltazione del sacramento
dell’eucarestia dopo il miracolo del corporale di Bolsena dell’anno
precedente. Da allora fu sempre celebrata in tutti i paesi cattolici e
così anche Napoli e sua ottava.
Per Torre la festa è documentata dal 1522, e si celebrava con due
solennità e l’altra nell’ottava, cioè otto giorni dopo, e che in
diversi siti solevano ergersi altari, come avveniva a Napoli, dei quali si
dava la benedizione al popolo[41]. Il popolo entusiasmato decise di
celebrare tutti gli anni la sua liberazione, otto giorni dopo il Corpus
Domini, con dei festeggiamenti pubblici; alzando nelle strade quattro
grandi altari, donde il nome che è rimasto alla festa. Nel 1862, dopo la
grave eruzione vesuviana del Dicembre precedente, il consiglio comunale
che ne era organizzatore, non disponendo di adeguati mezzi finanziari,
delibere per l’organizzazione della “festa dell’ottava del Corpus
Domini” che era la principale della città.
Accadde così che da allora la prima prese il sopravvento come festa unica
col nome popolare dell’”ottava” ancora oggi largamente usato, mentre
la prima si ridusse ad una breve processione eucaristica in piazza S.
Croce fino a pochi decenni fa[42].
In questo bellissimo quadro (Tav. 27), probabilmente di Francesco Paolo
Michetti riproduce la festa dei quattro altari nella seconda metà dell’800,
intorno al 1880 durante la processione dei Corpus Domini dove è molto
evidente la piazza S. Croce illuminata con lampioncini ad ollo. Da notare
tutto lo sfarzo e gli addobbi dedicati alla festa[43]. Nell’opera di
Pasquale Mattejs, forse di circa 20 anni precedente al quadro del Michetti
è probabile bozzetto per una tela di maggiori dimensioni, raffigura un
momento della festa dei quattro altari. Alla descrizione dell’episodio e
all’intento documentario l’artista sembra preferire il gioco
coloristico delle luci e delle ombre, realizzato con tocchi rapidi di
pennello e con una velocità di sintesi, senza tuttavia tralasciare lo
studio disegnativo della veduta[44].
Nel dipinto (Tav. 28), infatti, non sono raffigurate le macchine da festa
posizionate, secondo la tradizione, alle quattro porte della città, ma
viene colto il momento dell’esplosione dei fuochi pirotecnici, che
illuminano con bagliori violenti la scena notturna, rievocando immagini
festose, ma al tempo stesso la potenza devastante del Vesuvio. Il Mattejs
riesce, quindi, a fondere nell’opera il suo caratteristico impegno verso
temi di ricerca storica e di folclore, con la più tradizionale attenzione
al vedutismo e agli effetti di luce appresi alla scuola del maestro Pitloo[45].
NOTE
33 R. Raimondo, Itinerari
torresi e cronistoria del Vesuvio, Edizione La Torre p. 67.
34 R. Raimondo, Uomini
e fatti dell’antica Torre del Greco, opera postuma, 1985 pp.
273-274.
35 E. Di
Gaetano, Torre del Greco nella
antica tradizione e nella storia, Antiche Denominazioni, Vol. I, p.
160.
36 E. Di Gaetano, Torre
del Greco nella antica tradizione e nella storia, Antiche
Denominazioni, Vol. I, p. 160.
37 C. Di Cristo,
Torre del Greco. Storia, tradizioni
e immagini, Nuove edizioni 1985, pp. 93-94.
38
E. Di Gaetano, Torre del Greco nella antica tradizione e nella storia, Antiche
Denominazioni, Vol. I, p. 15.
39 Viaggio
da Napoli a Castellammare, Stamperie dell’Iride, Napoli 1845, p. 53.
40
R. Raimondo, Uomini e fatti dell’antica Torre del Greco, opera postuma, 1985 p.
485 e p. 527.
41 R. Raimondo, Uomini
e fatti dell’antica Torre del Greco, opera postuma, 1985 p. 485 e p.
527.
42
Di Cristo, Torre del Greco. Storia, tradizioni e immagini, Nuove edizioni 1985.
43
Raimondo, Uomini e fatti dell’antica Torre del Greco, opera postuma, 1985 p.
521.
44
Guida alla mostra. Torre del
Greco 1699 - L’anno del riscatto, Electa, Napoli 1999, pp. 47-48.
45
Civiltà dell’Ottocento. Le arti
figurative, Catalogo della mostra, Vol. II, Napoli 1997, pp. 490-491.
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