La genovese                           

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Per gli amici bolognesi ho preparato qualche volta la Genovese. L'avere avuto per molti anni un ufficio a Genova, li induceva naturalmente a pensare che quella ricetta l'avessi appresa in Liguria. Giuravo e spergiuravo che era un tesoro della cucina napoletana ma non ero in grado di giustificarne il nome.

Pensai allora di fare una breve ricerca e scrissi questa nota sul mistero del nome, proponendo una origine dello stesso, cosa che anni prima mi era capitato di immaginare, leggendo un testo di un anonimo del trecento, il "Liber de coquina".

Vi ripropongo quel testo così come pubblicato dalla rivista napoletana "Agorà".

La Genovese: un nome, un mistero

                                                              di Salvatore Argenziano

da www.napoliontheroad.it

 

Ultimo gradito e nuovo collaboratore è Salvatore Argenziano, un "napoletano del Nord Italia", intellettuale fermamente legato alla nostra terra  e alle sue tradizioni, che ci conduce per mano in uno spazio culturale accattivante, quello del gusto, introducendoci al mistero della "Genovese", salsa tutta partenopea tranne che nel nome.

Giovanni Musella.

           Quale sarà stata l’origine di questo stracotto, di questa salsa e del suo nome ancora oggi, credo, avvolto nel mistero?

Molti studiosi di storia della gastronomia si sono espressi con ipotesi e supposizioni, ma sempre senza certezza documentata. Non ho letture e esperienze recenti e le mie conoscenze sono ferme ai pochi libri della mia limitata e non aggiornata biblioteca sull’argomento della cultura gastronomica.

Accade qualche volta di magnificare e illustrare ad amici bolognesi i pregi e la bontà della cucina campana e così succede di dover chiarire il perché di certe denominazioni, come sartù, gattò, scapece, genovese eccetera. Allora viene voglia di rovistare tra i libri e rileggere quanto tanti anni prima si era ingurgitato, troppo velocemente per restare nella memoria, nell’entusiasmo della lettura, piena di fascino nel ricordo della propria origine e degli anni felici a Torre. Così è capitato per la Genovese, ed eccomi a riaprire testi e i ricettari, col piacere di un viaggio a casa.

L’argomento è il nome Genovese e il sospetto che ebbi sulla sua origine, sempre misteriosa in tutti gli scritti che la riguardano, quando una diecina di anni fa lessi la nota di presentazione del “Liber de coquina” di anonimo del Trecento. Sebbene dell’esistenza di questo testo se ne parlasse da molti anni, è solo nel 1971 che esso fu reso pubblico. Prima di allora, ma anche dopo, gli autori di ricettari della cucina napoletana hanno continuato a dare descrizioni affascinanti, ma sempre ipotetiche, sull’origine del termine Genovese. Se l’ipotesi del nome che in seguito esporrò sarà stata già convalidata da addetti ai lavori oppure già confutata, avrò almeno avuto il piacere di trascorrere qualche ora nel profumo della cipolla.

 

Cosa dicono i trattatisti?

Jeanne Caròla Francesconi, ne “La Cucina Napoletana” (Fausto Fiorentino Editore) dice che “La Genovese è conosciuta soltanto da noi napoletani” e che “nel Seicento esistevano a Napoli parecchi trattori genovesi … (che) usavano cucinare la carne in quel modo particolare …”.

Rita e Mariano Pane, autori de “I Sapori del Sud”, (edizione Rizzoli), sostengono che:“... non ha nulla a che vedere con Genova, (e) è già menzionato dal Cavalcanti...Pare che alcuni trattori genovesi stabilitisi a Napoli nel ‘600 avessero l’abitudine di cucinare la carne in questo modo.” Questa ipotesi però, non è confortata dall’esistenza di un piatto simile nella cucina ligure.

Luciano De Crescenzo, in un commento alla ricetta riportata nel testo dei Pane ritiene che: “Dio solo sa perché, pur essendo un piatto napoletano, si chiama genovese: sarà stata importata da Genova o forse il cuoco inventore si sarà chiamato di cognome Genovese.”.

Nella “Guida all’Italia Gastronomica” del T.C.I. la Genovese “E’ un piatto che pare lasciato in eredità alla tradizione napoletana dagli usi gastronomici di un’antica colonia di mercanti genovesi.”.

Rory Buonassisi, nel suo elegante e lussuoso volume di escursione nella gastronomia mediterranea, dal Bosforo a Gibilterra, “La Cucina Mediterranea”, riporta ancora un’altra versione sull’origine del nome. “Nonostante il nome, questa ricetta non ha nulla di ligure ma è anzi tipicamente napoletana; la leggenda vuole che il nome le sia stato dato da un marinaio che, tornato a casa, cercò di riprodurre un piatto gustato in Liguria finendo, poi, con crearne uno totalmente nuovo.”. C’è da chiedersi quale piatto ligure somigli a questo?

La preparazione della Genovese, in fondo, non è altro che la cottura antica di un arrosto, in bianco per la non conoscenza del pomodoro, se ci riferiamo agli anni che precedono il Settecento, epoca di introduzione del pomodoro come alimento, in Europa. La presenza poi della cipolla, abbondante e dominante. le conferisce la dignità e la caratteristica di un vero sugo.

Ippolito Cavalcanti, duca di Buonvicino, (1787-1860) ne “La Cucina Teorica-Pratica”  con un’appendice in forma di Cucina casareccia in dialetto napoletano dal titolo “Cucina Casarinola co la Lengua Napolitana” riporta una ricetta per la preparazione del “Lacierto di vacca mbuttunato”. Tanta somiglianza con la Genovese!

“Si po’ lu vuo’ fa mbuttunato, pigliarraje nu bello laciertiello, nce farraje nu pertuso a luongo, a luongo: po’ piglia na fella de prosutto e la ntretullaraje, nu poco de petrusino pure ntretato, quatto spicole d’aglia, pass e pignuole, na capa de casecavallo fatta a pezzulle e la mbottunarraje: miettelo dint’a nu tiano cu llardo pesato, na cepolla ntretata, sale, pepe e tutte spiezie e fallo zuffrijere buono, buono: confromme s’arrussesce miettece nu poco d’acqua a la vota e accossì farraje nu bello brodo pe li maccarune e pe ogne ncosa.”.

Non necessita traduzione. Precisiamo che il termine “brodo” si deve intendere “sugo”, come comunemente si usava nella lingua napoletana.

 

Riprendiamo il discorso sulla origine del nome.

Nel 1971 a Parigi, Marianne Mulon riporta alla luce due trattati di arte culinaria medioevale conservati nell’Archivio Nazionale di Parigi. Uno dei due è il Liber de coquina, di un autore anonimo trecentesco della corte angioina napoletana. Si tratta di un ricettario del mondo principesco e colto dell’epoca che attinge a culture diverse e internazionali, degne del dedicatario che è Carlo II d’Angiò. E’ di questa miscellanea di ricette, scritte in latino, alcune pubblicate nel volume “L’Arte della Cucina in Italia(Einaudi Editore) con traduzione a fronte, che una ha colpito anni fa la mia immaginazione, per il nome e per gli ingredienti. Si tratta della numero 66, “De Tria Ianuensis”, tradotta in “Della Tria Genovese”.

 

Prima di esaminare gli ingredienti di questa ricetta occorre chiarire il significato di “Tria” e per ciò ricorriamo al bellissimo e esauriente saggio di Emilio Sereni, “I Napoletani da Mangiafoglie a Mangiamaccheroni”, (Einaudi Editore), dove troviamo che “…nel testo del Theatrum sanitatis –che risale alla seconda metà del Trecento o ai primi del Quattrocento- delle paste alimentari ci si parla sotto il titolo di trij.”. Certamente il Sereni era a conoscenza del Liber de Coquina perché nello stesso saggio conferma l’uso del termine Tria riportato da altri testi trecenteschi a indicare la pasta alimentare e che “…uno di essi ci parla di Tria Genoese.”. Il termine “tria” era ancora presente in un vocabolario italiano–siciliano pubblicato a Palermo nel 1870 ed ancora oggi resta a designare un piatto regionale del Salento, “ciciri e tria”, cioè pasta e ceci come riferisce Vincenzo Buonassisi (Ripeto Vincenzo, non Rory) nel suo ponderoso testo “Il Nuovo Codice della Pasta” (edizione Rizzoli), precisando che: “… la parola trii, a un certo punto, passò ad indicare ogni genere di pasta …”.

Il termine deriva dall’arabo itriya, proveniente dal greco itria e con tale denominazione si usava indicare, ancora in età bizantina, vari tipi di manufatti di pasta. Certamente nella cultura alimentare araba la pasta essiccata costituì un alimento fondamentale, già dal secolo IX, molto prima che lo stesso fosse introdotto in Europa, come risulta da studi e ricerche su documenti arabi relativi alla alimentazione nel medioevo, citati dal professore Massimo Montanari dell’Università di Bologna nel suo testo “Alimentazione e cultura nel Medioevo” (editore Laterza).

Che a Genova, prima che in altre regioni italiane fosse diffuso l’uso di pasta essiccata a lunga conservazione ne parla, anche Massimo Montanari, insigne studioso degli usi e costumi medievali, nel testo citato, dove leggiamo: “Un posto di rilievo, nella cultura alimentare della Liguria medievale, ebbe – dal XIII secolo almeno – la pasta essiccata a lunga conservazione”.

 

Leggiamo ora la ricetta riportata nel “Liber de coquina”.

De Tria Ianuensis. Ad triam ianuensem, suffrige cipolas cum oleo et mite in aqua bullienti, decoque, et super pone species; et colora et assapora sicut vis. Cum istis potes ponere caseum grattatum vel incisum. Et da quandocumque placet cum caponibus et cum ovis vel quibuscumque carnibus.”.

La traduzione riportata nel testo della Einaudi è la seguente:

Della tria genovese. “Per fare tria genovese soffriggi cipolle con olio e metti in acqua bollente; fa cuocere e mettivi sopra spezie; e colora e insaporisci come vuoi. Con queste puoi mettere formaggio grattato o tagliato a pezzi. E servile ogni qual volta ti piaccia insieme con capponi o con uova o con qualunque carne..

 

Si tratta di una salsa per condire carni, uova eccetera o di pasta e cipolle? Perché il richiamo alla tria nel nome? Qual è il complemento oggetto di “mite in aqua bullienti, decoque”? La cipolla o la tria? Forse i genovesi, già conoscitori e consumatori di pasta alimentare secca nel Trecento, adoperavano questo sugo per condire la “tria”, cioè la pasta lunga e sottile, e i maccheroni o addirittura cuocessero la tria direttamente nel sugo allungato con l’acqua.

 A proposito di “maccheroni” ricordiamo che il questa denominazione compare già nel Decamerone di Boccaccio, VIII giornata, Terza novella.

“… in una contrada che si chiamava Bengodi… eravi una montagna tutta di formaggio parmigiano grattugiato, sopra la quale stavan genti che niun altra cosa facevano che far maccheroni …”.

Osserviamo ancora che, con tale termine, la pasta alimentare secca è citata per la prima volta in un atto notarile del 4 febbraio 1279, facente parte di una eredità in Genova, nel quale si nomina una “bariscella plena de macaronis”, certamente non pasta fresca.

Non possiamo neppure escludere che l’oggetto di “mite in aqua bullienti, decoque” sia la carne stessa. Questa pratica di cottura appare in altre ricette dell’autore, “decoque fortiter in aqua” ed è confermata da Massimo Montanari, ne “L’Alimentazione Contadina nell’alto Medioevo” (editore Liguori, Napoli), quando afferma che, per la scadente qualità dei cibi per le difficoltà di conservazione, “… la bollitura preliminare servirebbe, per così dire, da sterilizzazione preventiva”. Questa usanza di cottura era già diffusa in epoca romana, vedi Apicio, “De Re Coquinaria” (edizione Bompiani), testo ricettario quasi unico noto fino al tardo medioevo, dove troviamo al Libro VIII preparazioni di carni, spesso in “… aqua marina cum ramulis lauri…”.

Possiamo anche presumere che la ricetta dell’anonimo del Trecento intendesse portare a conoscenza della nobiltà angioina solo la salsa, senza specificarne l’uso con la pasta, per la mancanza di diffusione della stessa presso la corte napoletana trecentesca. Si vuol far conoscere la salsa ma la ricetta conserva nel titolo la sua essenza primaria, cioè “pasta genovese”.

Non credo di essere in grado di trarre delle conclusioni da quanto sopra esposto e sarei lieto di sapere che qualche studioso, esperto nella materia, mosso dal dubbio sollevato, facesse ricerche a smentire o confermare la presente ipotesi di fantasia. Oppure sapere che tutto ciò è stato già fatto.

 

Ed ora qualche confronto sulle varianti della preparazione, seconda la fantasia degli esecutori, da veraci napoletani sempre poco propensi a restare in schemi definitivi e senza un minimo di sfogo alla fantasia personale.

Gli ingredienti:

Carne, Cipolla, Ventresca, Olio, Sugna, Carota, Sedano, Pomodoro, Prezzemolo, Vino bianco.

 

La Carne:

Gli autori classici della gastronomia campana si riferiscono a carne di bovini, di vaccina in particolare. Ho esperienze con carne di maiale che, al di là della tradizione, ritengo dia ottimi risultati. Personalmente ho preparato la Genovese anche con brasciole di maiale.

Laciérto (Girello). A favore della scelta di questo taglio di carne troviamo Anna e Piero Serra, autori de “La Cucina della Campania” (Franco Di Mauro Editore), con Rita e Mariano Pane, nel testo sopra citato, e Luciano De Crescenzo, (secondo la scuola di pensiero di Santa Lucia).

Gammunciéllo. (Muscolo posteriore dello stinco). Questo taglio è suggerito da Luciano De Crescenzo, (secondo la scuola di pensiero di Corso Garibaldi).

Cularda, (Scamone, Culaccio). E’ l’alternativa suggerita da Rita e Mariano Pane.

Primo taglio di annecchia (vitello) è la scelta di Jeanne Caròla Francesconi e anche di Carnacina e Veronelli, autori de “La cucina Rustica Regionale”, (edizione Rizzoli).

 

Le Cipolle.

Quanta cipolla occorre per una buona genovese? Ancora suggerimenti contrastanti. Si passa, per un chilo di carne, dai 350 grammi di cipolle (Anna e Piero Serra), a quasi 700 (Rita e Mariano Pane) fino a 1,250 chili (Jeanne Caròla Francesconi). Confesso la mia preferenza per quest’ultima scelta. Solo a titolo di curiosità citerò la scelta di Rory Buonassisi che prevede ben cinque chili di cipolle(per un chilo di carne). Ma tanto vale che riporti, dimenticateli, gli ingredienti del dottor Rosario Buonassisi. “Per 4 persone: 600 grammi di filetto di manzo o di vitellone, 3 chilogrammi di cipolle, 4 cucchiai di olio di oliva, 1 bicchiere di aceto rosso di vino, 10 granelli di pepe nero, sale e (dulcis in fundo) un cucchiaio di aceto balsamico.”. Tra tante ricette a rappresentare la cucina dell’Area Mediterranea, dal mondo arabo alla Spagna, Napoli meritava una più attenta rappresentanza.

La cipolla va tritata o tagliata a fette sottili. Ma non tutti sono su questo d’accordo. Il papà di Luciano De Crescenzo diceva che “La cipolla non deve conoscere il ferro; se vede la lama s’avvilisce” Cipolle intere, altra variante della fantasia partenopea.

 

Olio, Sugna e Burro.

La sugna e l’olio costituiscono il condimento principe della cucina di terra campana. Oggi, purtroppo, sempre più spesso appare il burro in sostituzione. Nessuna prevenzione contro quest’ottimo prodotto ma, la classicità delle ricette esige la profumata ‘nzogna, quella ancora fatta in casa da molte famiglie napoletane.

 

Pomodoro, Sedano, Prezzemolo e Carota.

Mentre sedano e carota sono sempre in primo piano, non sempre si trova citato il prezzemolo. Qualcuno lo sostituisce con il basilico, ma ritengo che ci azzecchi poco con la Genovese, nonostante il suo uso abbondante nella cucina ligure. Non tragga in inganno il nome genovese.

Il pomodoro è aggiunto nella Genovese solo come ingrediente accessorio, un odore, come il sedano, il prezzemolo e la carota. Se è vero che la genovese ha origini antiche, non può essere stato adoperato se non in un passato recente. Nel saggio di Emilio Sereni si legge che: “...quei maccheroni, ... erano, ancora nei primi decenni dell’Ottocento, non lo si dimentichi, maccheroni conditi col solo formaggio grattugiato, o al più con un sugo di carne; mentre solo a partire dagli anni attorno al 1830, a quanto pare, il condimento col pomodoro (o poi con la conserva di pomodoro) .....comincerà a generalizzarsi tra la popolazione partenopea”. Jeanne Caròla Francesconi sostituisce il pomodoro con un “cucchiaino” di concentrato, appena l’ombra di una eretica presenza.

 

La Pasta

Abbiamo definito la Genovese uno stracotto, una salsa ma, in realtà, la sua vera morte è come salsa sui maccheroni. Dire maccheroni è voler indicare in maniera generica la pasta; quale tipo di pasta?

Per Luciano De Crescenzo, articolo citato, “In genere la Genovese la si fa con la pasta doppia, tipo rigatoni, maltagliati, mezzani e via dicendo.”.

Mezzanelli, mezzani, ziti, zitoni e candele sono le paste suggerite da Anna e Piero Serra.

Jeanne Caròla Francesconi sostiene che “La Genovese non si presta … ai più svariati impieghi, ma è principio e fine a se stessa, superba e solitaria, esigendo la sola compagnia dei mezzani e tollerando qualche volta quella dei maltagliati e del riso.”.

 

   

Risultato finale.

 

Senza scomodare teorie filosofiche e scuole di pensiero, alla De Crescenzo, è certo che in ogni famiglia, in ogni paese, il culto della Genovese è officiato in modo diverso. Ma ciò avviene per l’innata natura individualistica e creativa dei napoletani, sempre aperti alla personalizzazione del proprio operato. Tanto vale per la Genovese, come per il ragù, per la pastiera e per tutti i piatti della tradizione. Ogni famiglia uno stile personale, un odore in più o meno, un dettaglio custodito e esaltato come il segreto del successo della propria personale arte culinaria.

Ed ora all’opera e buon appetito.