Cap. 11 - Pag. 450

Cap. 11 - Pag. 451 

retorica. Le cose che sanno di latte materno, di corse nei prati, di candore ed onestà non sono esprimibili con linguaggi moderni, artificiosi, istrionici e fallaci. Care botteghe disperse nelle viottole barrocciabili delle contrade rurali vesuviane, o negli anfratti oleografici dei centri storici, nel labirinto dei dedali della provincia prischiana; neri fondachi dell’arte nera, nei quartieri bassi dei paesini campani più antichi. Care botteghe adattate negli stambugi nascosti dei vicoli mai risanati della Napoli povera di delbalziana memoria, o nei tuguri addossati nelle traverse dei numerosi centri urbani abbarbicati alle pendici del Vesuvio, o quelli che vanno da Capo Miseno alla Punta della Campanella, o altri ancora dell’entroterra fino al Casertano, all’Avellinese e al Beneventano, addio! Tipografie romantiche, prestigiose gemme nere della cultura partenopea, là nei sottoscala, lungo i chiassuoli vocianti, non carrabili, nei cortili, sull’aia, sotto balaustre o balconi addobbati di garofani e rose, tra portoncini, scalette e portelle, negli androni infossati sotto spicchi di cielo azzurro e bucato sciorinato al sole. Addio! Le tecnologie industriali da multinazionale vi braccano,

come i nazisti i poveri ebrei e, afferrate, vi sopprimono, come cose inutili, anzi dannose. Care, vetuste, cupe botteghe tipografiche, con buona pace di Senefelder, dove i camici neri seraiani digru- mavano la colazione meridiana con nient’altro companatico che peperoni arrostiti e cime di rapa, sbirciando dall’uscio della bottega con quel sorriso d’intesa tra colleghi, pacato ed ebete, le compaesane sulla strada, dagli occhi svampiti e il colorito roseo, sempre copiose di forme. Più in là la gaiezza puerile degli scugnizzi, eredi ideali dei lazzaroni, sempre alla ricerca di frivolezze e nullagini per essere felici, come i policromi rifili del tagliacarte, da utilizzare a mo’ di coriandoli in quella lunga carnevalata che e la loro esuberante giovinezza. Il tipografo artigiano vecchia maniera muore con la Serao, con Marotta, con la Napoli oleografica, sostituita dalla nuova cartografia urbana di una città ed una provincia irriconoscibili, con i falansteri della 167 di Secondigliano, e di tante Cattedrali nel deserto dell’area campana; con gli agglomerati caotici, densissimi di popolazione, urbanisticamente irrespirabili, automobilisticamente infernali della provincia mai più addormentata; con