Torre e il corallo      pag. 15 di 17

LA 5. ARMATA 
AMERICANA, 
LA DITTA R. COSTA
E I TORRESI



            Plaquette pubblicitaria  dell'antica 
             fabbrica di coralli R. Costa & C.

Certo, c’e stata una seconda guerra mondiale, che porto i suoi danni anche nel nostro settore; ma li superammo con pazienza, volontà, spirito di sacrificio e con l’aiuto inconsapevole della «5’ Armata americana» unitamente, a quello, piuttosto razionale, della onnipresente Ditta Costa. 
Che cosa potevano mai avere in comune gli uomini del generale Clark con la ripresa post-bellica dei Torresi? L’unico punto in comune, e ovvio, era il corallo: i primi volevano comprarlo, i secondi venderlo. Esisteva pero un problema immediato: la mancanza del corallo stesso. 
Dicevamo dell’aiuto inconsapevole ricevuto da questi Alleati, perché fu dal loro «voler acquistare» che a noi derivo la precisa determinazione di vendere e lavorare», quali che fossero i problemi esistenti. Avevamo in casa chi voleva comprare, ma dov’era la merce da vendere loro? Per i Torresi era inaccettabile l’idea di avere a portata di mano i ricchi americani, clienti sempre tanto ambiti, e doverli lasciare andar via a mani vuote: bisognava trovare il corallo a tutti i costi, grezzo o lavorato che fosse, a costo di scavarlo dalla terra. 
Proprio cosi, «scavarlo».’ forse che i Torresi non avevano sentito dire del corallo «scarto» di Sciacca «seppellito»? Non era noto a tutti che alla fine dell’800 ci si liberava di quel materiale riversandolo nelle cisterne di raccolta delle acque pluviali o in grandi buche scavate in orti e giardini? Fu sulla base di tale ricordo che Torre scoprì di possedere un favoloso potenziale di grezzo. Ma dov’era? La topografia e la toponomastica cittadina da quell’epoca avevano subito molti mutamenti: case vecchie erano state abbattute per costruirvene di nuove, ampie strade avevano attraversato i vecchi quartieri, per cui non era facile individuare le eventuali «miniere». 
Non ci si perse d’animo: comincio una vera caccia ai pozzi e ai giardini delle case più vecchie, prendendo di mira innanzi tutto quelle che si sapeva essere state abitate da pescatori, commercianti e corallari. A ripensarci, bisogna ammettere che la situazione doveva apparire, a chi era solo spettatore, quanto meno grottesca: ogni indizio di esistenza di corallo nel sottosuolo dava luogo ad ansie, speranze, enormi fatiche, che finivano, poi, a seconda del risultato, con grande entusiasmo o con avvilente delusione. E non è esagerato dire che il disseppellimento di quella roba, nascosta da oltre mezzo secolo, ci dava proprio la sensazione di tirar fuori oro da vecchie miniere abbandonate. 

           
                      Raffaele Costa di Genova

Comunque, alla fine la materia fu trovata: per merito, quindi, dei nostri nonni, nel 1944-45 Torre del Greco, oltre a sconfiggere economicamente l’imbattibile «5’ Armata», ebbe l’illusione di avere finalmente ricominciato.
L’operazione non poteva risolvere tutti i problemi ed eliminare le difficoltà esistenti, ma agi su di noi come un tonico mentale e psicologico, come uno stimolante vero e proprio. Tutto ciò che avvenne dopo, e che di sicuro e vivo nella memoria di chi e della mia generazione, rientra nella riorganizzazione generale della Città: innanzitutto il ritorno a casa degli uomini e, quindi, il ripristino dei laboratori. Occorrevano, pero, clienti e «piazze» da rifornire, materia prima e, a molti, anche denaro per acquistarla. A tutti, comunque, occorreva fede nelle reali possibilità di ripresa del nostro settore.
Di quanto, pero, fosse ancora vacillante questo ottimismo, fu indicativa l’accoglienza fatta ad una partita di corallo grezzo «Sardegna», la prima dalla fine della guerra, che rimase quasi tutta invenduta proprio per lo scetticismo generale. In proposito, anzi, ricordo un episodio. Fui avvicinato da Luigi Borrelli, anch’egli appartenente a vecchia famiglia di corallari, il quale, alludendo appunto ad una parte di quel grezzo acquistata dalla ditta «Vincenzo Liverino», mi disse: «Ho saputo che tuo padre ha avuto il coraggio di comprare il
"Sardegna" e che ha chiamato gli operai per lavorarlo. Ne sono proprio contento perché dalla sua fiducia mi viene la certezza che a Torre si ricomincerà a lavorare veramente». Episodio sintomatico dello stato di suspense collettivo, e vero, ma anche di quanta «carica» può dare, in particolari momenti, 1’operato di un uomo che goda di stima e rispetto. Tornando al discorso della materia prima, va detto che proprio nel reperimento della stessa entra in gioco Costa col suo aiuto razionale, in quanto costituito dal furbo e moderato centellinare del corallo da lui posseduto. Questo nome genovese, come abbiamo gia visto, era tutt’altro che nuovo per i Torresi. Si pensi, ad esempio, che la Ditta «Antonino De Simone» (ora tra le più importanti di Torre ed egregiamente condotta da Nino, figlio di Antonino) gia nel 1927 aveva avuto un rapporto di collaborazione con l’Azienda di Genova. All’epoca di cui parliamo il signor Costa aveva il suo «fiduciario» nell’avv. Luigi Polese, vero gentleman, che pochi, tra quanti l’hanno conosciuto, avranno dimenticato. Mario Costa, nipote di Raffaele fondatore della azienda, volendo riprendere i rapporti col nostro mercato, nell’agosto 1945 scrisse a Polese chiedendo notizie della situazione locale e offrendo un po’ del suo «Sciacca».